PROGETTO GRAFICO n°

Giugno / 2022

Perdere il corpo.

“Adesso, in questo mentre sospeso tra un prima e un dopo, i nostri corpi paiono perdere consistenza. Sono privati del confronto, della vita intorno, dei luoghi d’incontro dove si esercita la promiscuità, del desiderio che palpita nel guardare e nel farsi guardare.” (Frisa, 2020, p.92). Corpi censurati poiché legati alla loro irriducibile sostanza organica, fatta di fluidi, respiro, tatto, rappresentativi di una perdita. Un distacco percepito come imposto, poiché causato da una pandemia inaspettata quanto spietata nel suo procedere lento. Il corpo, questo sconosciuto, il cui viso è nascosto a metà, sempre più invisibile nella sua interezza, si frammenta, si fa in mille pezzi, gli uni dagli altri separati. Schegge di sguardi si incrociano per le strade, mezzi busti con mani e viso sono visibili solo dietro ai monitor, ritagli selezionati di ciò che vogliamo mostrare sono esibiti attraverso i nostri cellulari – questi ultimi, feticci di un alterego virtuale che non si stacca da dosso.

La perdita del corpo pubblico spesso coincide con quello privato, come se la dimensione esteriorizzata fosse una delle ragioni prime per la sua cura, e conseguente ostentazione. Il mutilare un tale territorio di confronto ci pone in una condizione del tutto innaturale e indecifrabile. Un’esperienza estranea dalla considerazione che Heidegger fa del corpo. “L’uomo non ha un corpo e non è un corpo, bensì vive il suo corpo-vivente. […]. Una testa non è un corpo dotato di occhi e orecchie, bensì è un fenomeno del corpo-vivente, contrassegnato dall’essere-nel-mondo che guarda e ascolta.” (Heidegger, 1964, pp.34-35). 

Da qui, la privazione dell’approccio sensoriale ci spinge, per compensazione, in un’altra dimensione, quella del virtuale. Una dimensione, tuttavia, oltrepassata, poiché già integrata e assorbita dentro le nostre vite. Conseguenza del passaggio digitale, il postdigitale si configura, dunque, come lo scenario operativo corrente: uno spazio dove la transizione è avvenuta, un luogo che accoglie l’ibrido e il mescolarsi effettivo tra fisico e immateriale. “Postdigital pertains […] the interplay between digital, biological, cultural, and spiritual systems, between cyberspace and real space, between embodied media and mixed reality in social and physical communication, between high tech and high touch experiences, […]” (Alexenberg, 2011, p.11). 

La perdita dei sensi subita trova cosi una sorta di bilanciamento in una riappropriazione del virtuale, e in particolar modo nell’uso di social media, quali Instagram e SnapChat, che accolgono le sperimentazioni più radicali messe a disposizione dalla grafica 3D e in real time. Da questa prospettiva, la censura del corpo spinge la tecnologia al ruolo di protagonista, per una ricostruzione del rapporto di reciprocità con l’altro e la riscoperta di spazi di condivisione alternativi. 

Pratiche digitali di metamorfosi e rilevazione sensoriale.

Dispositivi che permettono nuove percezioni sinestetiche, wearables che accrescono determinate sensorialità, relazioni digitali che trascendono la corporeità poiché dilatata, trasfigurata: la cultura del progetto grafico adotta la figura umana come strumento per una sua indagine radicale. I filtri digitali ne esaminano e reinterpretano le espressioni facciali, i valori estetici desiderati, i dettagli di ogni singolo individuo, l’ambiente circostante, secondo una rinnovata interazione tra corpo organico e rappresentazione artificiale. Il corpo si reinventa nell’amplificazione del suo immaginario virtuale. In una dimensione a-spaziale e a-temporale, come afferma Foucault, “Il corpo è il punto zero del mondo; laddove le vie e gli spazi si incrociano, il corpo non è da nessuna parte: è al centro del mondo, questo piccolo nucleo utopico a partire da quale sogno, parlo, procedo, immagino, percepisco le cose al loro posto e anche le nego attraverso il potere infinito delle utopie che immagino.” (Foucault, 2004, pp. 42-43). Da sempre, attraverso la sua immagine, le utopie del corpo delineano scenari dove l’uomo costantemente tenta di sfidare i suoi limiti. 

Nell’ambito del progetto grafico, l’isolamento causato dal covid-19 non ha fatto altro che accentuare la necessità di tali esplorazioni, e a partire da queste vale la pena soffermarsi su alcuni autori che hanno individuato, attraverso i social, un nuovo territorio di ricerca. Tra i diversi creativi che operano in questo campo, emergono la make up artist Ines Alpha, la creatrice di filtri Johanna Jaskowska, l’interactive designer Aaron Jablonski. Si tratta di designer transdisciplinari che travalicano i confini della grafica stessa, mischiandola con la visual art, la modellazione 3D e la motion graphic, e la cui scomposizione della realtà si compie sempre al confine tra fisico e virtuale, corporeo e incorporeo. 

Con il fenomeno dei social media – amplificatosi ancora di più a causa alle ristrette condizioni di libertà individuale -, il focus sul volto aumenta esponenzialmente, fino a diventare il primo agente catalizzatore della rappresentazione del sé. Il volto, reale o fittizio, si configura cosi come campo d’indagine per un make-up che non si realizza solo per mezzo della tecnica cosmetica, ma anche attraverso l’interazione personale con i propri dispositivi. In questa direzione della ricerca, Ines Alpha progetta colori e forme attraverso la costruzione tridimensionale di patch indossabili e makeup 3d, e apre la strada ad un gioco illusorio fatto di mondi fantastici che chiunque può indossare attraverso i propri profili in rete. Le sue maschere This is human, ARmakeup for Dior, Oyster moisture e Monogram wave rappresentano un universo ambiguo dove umano e animale si confondono, scambiandosi i connotati grazie a estensioni fluttuanti e gelatinose. (Fig.1, 2, 3). 

“A new cult is rising. Our bodies are becoming fluid, our money decentralized, new powers are being formed. Slowly we are moving into a non-dual operating system. […] What can a body be when it is freed from physical restraints? What does identity mean when there are endless bits and bytes to express it? […] We look for a connection in technology. It is our new religion.” (Jaskowska, 2020). Al confine tra grafica 3D e visual art, Johanna Jaskowska crea filtri concettuali che agiscono sul corpo e i sensi in maniera provocatoria e riflessiva. Tra questi: Matter è un filtro che influisce sullo spazio esterno lasciando scie di energia che riflettono i confini del proprio corpo fisico; SelfScan funziona come una sorta di scanner digitale che restituisce l’immagine desiderata a partire da una linea orizzontale fissa che la blocca e ridisegna nel movimento; Beauty 3000 genera sulla pelle un sottilissimo film traslucido che crea iridescenze e punti luce; Zoufriya, infine, lavora solo sugli occhi, annullandone lo sguardo mediante un riempimento nero che ipnotizza e disorienta. (Fig.4, 5, 6). 

Nel dialogo tra individuo e spazio, attraverso una serie di espedienti tecnici come creative coding (VR/AR), glitch e algorithmic data, Aaron Jablonski mette in scena diverse esperienze aumentate che influenzano la percezione degli ambienti naturali in cui è possibile immergersi. Tra le sperimentazioni più interessanti, oltre alle maschere virtuali che giocano sulla tassellazione del viso attraverso forze centrifuge che lo moltiplicano verso l’esterno – Projection, One, Polyface, Face Void -, troviamo diversi filtri di augmented reality. Le modalità d’utilizzo sono ambientate in foreste, montagne, scenari selvaggi, dove una natura primordiale entra in contatto con diverse transizioni mimetiche e bugs che confondono l’essere umano con lo spazio circostante.  (Fig.7, 8, 9). 

Chiamare in causa il corpo come stato di presenza, nel suo ruolo di strumento di indagine del progetto, significa restituirgli tutta la carica energetica e il peso simbolico che porta con sé. È dal corpo smarrito che emergono, reinterpretati, nuovi valori, espressioni, gestualità, sensazioni, secondo una rinnovata interazione tra interno e esterno, in un continuo gioco di rimandi tra la proiezione del sé e la relazione con l’altro, poiché “[…] il virtuale recupera la nozione di iper-realtà. La realtà virtuale, perfettamente omogenizzata, numerizzata, “operazionalizzata”, si sostituisce all’altra perché perfetta, controllabile e non contraddittoria.” (Baudrillard, 2002, p.41). 

Da un punto di vista concettuale, è opportuno sottolineare come l’approccio postdigitale tenti un superamento del conflitto che esiste tra la solidità del mondo fisico e la fluidità dell’elettronica attraverso una progettazione capace di esplorare il digitale anche attraverso gli aspetti più sensibili del sentire umano: l’acquisizione di corpi perfetti, magnetici, immersi nella natura si compie cosi proprio grazie alla tecnologia, ma in maniera del tutto immaginaria, simulata in un’altrove che confonde i piani di appartenenza. 

Il corpo-vivente attraverso il display. 

Aprendo l’orizzonte della ricerca visiva in un’ottica di manipolazione postdigitale, le tendenze illustrate proiettano la costruzione dell’immagine di sé in una dimensione di mix media, tra tangibile e virtuale, alla riscoperta di inedite possibilità di espressione. In quanto linguaggi emergenti, estremamente impattanti nell’ambito dei social media, riflettere su culture estetiche di questo tipo ci aiuta a comprendere quali possono essere le evoluzioni future nel rapporto tra uomo e tecnologia, e della grafica in combinazione al digitale. 

Nel ritornare all’importanza della nostra fisicità – che oggi appare cosi distante – uno degli scenari più interessanti consiste, dunque, nell’adozione della corporeità come singolare punto di partenza e arrivo del progetto. La tangibilità della nostra esistenza transita cosi attraverso filtri IG e ambiti come l’augumented reality, per un’esplorazione sia speculativa che visiva dell’essere umano, completamente integrato in una dimensione ibrida. Un’interpretazione di tale fusione ci viene fornita da Florian Cramer che la descrive non come la fine del digitale, ma come una sua evoluzione progressiva, (Cramer, 2014, p.13) un processo logico che avvicina gli uomini ad una maggiore consapevolezza della loro contemporaneità. “In ogni trasformazione, dai fori che i primitivi praticavano nelle labbra, nelle orecchie, nel naso, nei genitali, agli abiti, gli ornamenti, ai gioielli, l’uomo, unico tra gli animali, non ha mai smesso di giocare col proprio corpo, nel tentativo continuo di superarne i limiti e la conseguente rigidità dell’immagine.” (Galimberti, 1983, p. 326). 

La necessità di riportare il corpo organico al centro della tecnologia e dei suoi processi di trasformazione va intesa, dunque, come la volontà di una partecipazione all’evoluzione della società, per una riontologizzazione del suo status quo e l’esplorazione di nuovi modi d’essere e aprirsi al mondo. La prospettiva corporea nel senso del vivente – il cosiddetto Leib tedesco di Heidegger – viene cosi ad essere rappresentata oggi dall’emergere di quest’insieme di pratiche miste che, sebbene siano percepibili solo attraverso un display, nel loro rinsaldarsi al corpo, esprimono ancora una volta quella necessità del sentire, profondamente umana. 

Bibliografia

Alexenberg, M. (2011). The Future of Art in a Postdigital Age. Bristol: Intellect Ltd.
Baudrillard, J. (2002). Il virtuale. In Parole chiave. Roma: Armando Editore. 
Florian, C. (2014). What is Postdigital? APRJA Journal Vol.3 Post-Digital Research. Aarhus: Aarhus University and Transmediale/Art and Digital Culture.
Frisa, M.L. (2020). La censura del nostro corpo pubblico. Flash Art n.349 – giugno/agosto 2020. Milano: Giancarlo Politi Editore.
Foucault, M. (2004). (ed.it. 2020). Il corpo utopico. In Utopie Eterotopie. Napoli: Cronopio. 
Galimberti U. (1983). Il corpo e la sua immagine. In Il corpo. Milano: Feltrinelli. 
Heidegger, M. (1964). (ed.it.2000). Corpo e spazio. Genova: Il Melangolo. 
Jaskowska, J. (2020). Let’s flirt with technology. Retreived from: https://www.instagram.com/johwska/

PROGETTO GRAFICO n°

Giugno / 2022

Perdere il corpo.

“Adesso, in questo mentre sospeso tra un prima e un dopo, i nostri corpi paiono perdere consistenza. Sono privati del confronto, della vita intorno, dei luoghi d’incontro dove si esercita la promiscuità, del desiderio che palpita nel guardare e nel farsi guardare.” (Frisa, 2020, p.92). Corpi censurati poiché legati alla loro irriducibile sostanza organica, fatta di fluidi, respiro, tatto, rappresentativi di una perdita. Un distacco percepito come imposto, poiché causato da una pandemia inaspettata quanto spietata nel suo procedere lento. Il corpo, questo sconosciuto, il cui viso è nascosto a metà, sempre più invisibile nella sua interezza, si frammenta, si fa in mille pezzi, gli uni dagli altri separati. Schegge di sguardi si incrociano per le strade, mezzi busti con mani e viso sono visibili solo dietro ai monitor, ritagli selezionati di ciò che vogliamo mostrare sono esibiti attraverso i nostri cellulari – questi ultimi, feticci di un alterego virtuale che non si stacca da dosso.

La perdita del corpo pubblico spesso coincide con quello privato, come se la dimensione esteriorizzata fosse una delle ragioni prime per la sua cura, e conseguente ostentazione. Il mutilare un tale territorio di confronto ci pone in una condizione del tutto innaturale e indecifrabile. Un’esperienza estranea dalla considerazione che Heidegger fa del corpo. “L’uomo non ha un corpo e non è un corpo, bensì vive il suo corpo-vivente. […]. Una testa non è un corpo dotato di occhi e orecchie, bensì è un fenomeno del corpo-vivente, contrassegnato dall’essere-nel-mondo che guarda e ascolta.” (Heidegger, 1964, pp.34-35). 

Da qui, la privazione dell’approccio sensoriale ci spinge, per compensazione, in un’altra dimensione, quella del virtuale. Una dimensione, tuttavia, oltrepassata, poiché già integrata e assorbita dentro le nostre vite. Conseguenza del passaggio digitale, il postdigitale si configura, dunque, come lo scenario operativo corrente: uno spazio dove la transizione è avvenuta, un luogo che accoglie l’ibrido e il mescolarsi effettivo tra fisico e immateriale. “Postdigital pertains […] the interplay between digital, biological, cultural, and spiritual systems, between cyberspace and real space, between embodied media and mixed reality in social and physical communication, between high tech and high touch experiences, […]” (Alexenberg, 2011, p.11). 

La perdita dei sensi subita trova cosi una sorta di bilanciamento in una riappropriazione del virtuale, e in particolar modo nell’uso di social media, quali Instagram e SnapChat, che accolgono le sperimentazioni più radicali messe a disposizione dalla grafica 3D e in real time. Da questa prospettiva, la censura del corpo spinge la tecnologia al ruolo di protagonista, per una ricostruzione del rapporto di reciprocità con l’altro e la riscoperta di spazi di condivisione alternativi. 

Pratiche digitali di metamorfosi e rilevazione sensoriale.

Dispositivi che permettono nuove percezioni sinestetiche, wearables che accrescono determinate sensorialità, relazioni digitali che trascendono la corporeità poiché dilatata, trasfigurata: la cultura del progetto grafico adotta la figura umana come strumento per una sua indagine radicale. I filtri digitali ne esaminano e reinterpretano le espressioni facciali, i valori estetici desiderati, i dettagli di ogni singolo individuo, l’ambiente circostante, secondo una rinnovata interazione tra corpo organico e rappresentazione artificiale. Il corpo si reinventa nell’amplificazione del suo immaginario virtuale. In una dimensione a-spaziale e a-temporale, come afferma Foucault, “Il corpo è il punto zero del mondo; laddove le vie e gli spazi si incrociano, il corpo non è da nessuna parte: è al centro del mondo, questo piccolo nucleo utopico a partire da quale sogno, parlo, procedo, immagino, percepisco le cose al loro posto e anche le nego attraverso il potere infinito delle utopie che immagino.” (Foucault, 2004, pp. 42-43). Da sempre, attraverso la sua immagine, le utopie del corpo delineano scenari dove l’uomo costantemente tenta di sfidare i suoi limiti. 

Nell’ambito del progetto grafico, l’isolamento causato dal covid-19 non ha fatto altro che accentuare la necessità di tali esplorazioni, e a partire da queste vale la pena soffermarsi su alcuni autori che hanno individuato, attraverso i social, un nuovo territorio di ricerca. Tra i diversi creativi che operano in questo campo, emergono la make up artist Ines Alpha, la creatrice di filtri Johanna Jaskowska, l’interactive designer Aaron Jablonski. Si tratta di designer transdisciplinari che travalicano i confini della grafica stessa, mischiandola con la visual art, la modellazione 3D e la motion graphic, e la cui scomposizione della realtà si compie sempre al confine tra fisico e virtuale, corporeo e incorporeo. 

Con il fenomeno dei social media – amplificatosi ancora di più a causa alle ristrette condizioni di libertà individuale -, il focus sul volto aumenta esponenzialmente, fino a diventare il primo agente catalizzatore della rappresentazione del sé. Il volto, reale o fittizio, si configura cosi come campo d’indagine per un make-up che non si realizza solo per mezzo della tecnica cosmetica, ma anche attraverso l’interazione personale con i propri dispositivi. In questa direzione della ricerca, Ines Alpha progetta colori e forme attraverso la costruzione tridimensionale di patch indossabili e makeup 3d, e apre la strada ad un gioco illusorio fatto di mondi fantastici che chiunque può indossare attraverso i propri profili in rete. Le sue maschere This is human, ARmakeup for Dior, Oyster moisture e Monogram wave rappresentano un universo ambiguo dove umano e animale si confondono, scambiandosi i connotati grazie a estensioni fluttuanti e gelatinose. (Fig.1, 2, 3). 

“A new cult is rising. Our bodies are becoming fluid, our money decentralized, new powers are being formed. Slowly we are moving into a non-dual operating system. […] What can a body be when it is freed from physical restraints? What does identity mean when there are endless bits and bytes to express it? […] We look for a connection in technology. It is our new religion.” (Jaskowska, 2020). Al confine tra grafica 3D e visual art, Johanna Jaskowska crea filtri concettuali che agiscono sul corpo e i sensi in maniera provocatoria e riflessiva. Tra questi: Matter è un filtro che influisce sullo spazio esterno lasciando scie di energia che riflettono i confini del proprio corpo fisico; SelfScan funziona come una sorta di scanner digitale che restituisce l’immagine desiderata a partire da una linea orizzontale fissa che la blocca e ridisegna nel movimento; Beauty 3000 genera sulla pelle un sottilissimo film traslucido che crea iridescenze e punti luce; Zoufriya, infine, lavora solo sugli occhi, annullandone lo sguardo mediante un riempimento nero che ipnotizza e disorienta. (Fig.4, 5, 6). 

Nel dialogo tra individuo e spazio, attraverso una serie di espedienti tecnici come creative coding (VR/AR), glitch e algorithmic data, Aaron Jablonski mette in scena diverse esperienze aumentate che influenzano la percezione degli ambienti naturali in cui è possibile immergersi. Tra le sperimentazioni più interessanti, oltre alle maschere virtuali che giocano sulla tassellazione del viso attraverso forze centrifuge che lo moltiplicano verso l’esterno – Projection, One, Polyface, Face Void -, troviamo diversi filtri di augmented reality. Le modalità d’utilizzo sono ambientate in foreste, montagne, scenari selvaggi, dove una natura primordiale entra in contatto con diverse transizioni mimetiche e bugs che confondono l’essere umano con lo spazio circostante.  (Fig.7, 8, 9). 

Chiamare in causa il corpo come stato di presenza, nel suo ruolo di strumento di indagine del progetto, significa restituirgli tutta la carica energetica e il peso simbolico che porta con sé. È dal corpo smarrito che emergono, reinterpretati, nuovi valori, espressioni, gestualità, sensazioni, secondo una rinnovata interazione tra interno e esterno, in un continuo gioco di rimandi tra la proiezione del sé e la relazione con l’altro, poiché “[…] il virtuale recupera la nozione di iper-realtà. La realtà virtuale, perfettamente omogenizzata, numerizzata, “operazionalizzata”, si sostituisce all’altra perché perfetta, controllabile e non contraddittoria.” (Baudrillard, 2002, p.41). 

Da un punto di vista concettuale, è opportuno sottolineare come l’approccio postdigitale tenti un superamento del conflitto che esiste tra la solidità del mondo fisico e la fluidità dell’elettronica attraverso una progettazione capace di esplorare il digitale anche attraverso gli aspetti più sensibili del sentire umano: l’acquisizione di corpi perfetti, magnetici, immersi nella natura si compie cosi proprio grazie alla tecnologia, ma in maniera del tutto immaginaria, simulata in un’altrove che confonde i piani di appartenenza. 

Il corpo-vivente attraverso il display. 

Aprendo l’orizzonte della ricerca visiva in un’ottica di manipolazione postdigitale, le tendenze illustrate proiettano la costruzione dell’immagine di sé in una dimensione di mix media, tra tangibile e virtuale, alla riscoperta di inedite possibilità di espressione. In quanto linguaggi emergenti, estremamente impattanti nell’ambito dei social media, riflettere su culture estetiche di questo tipo ci aiuta a comprendere quali possono essere le evoluzioni future nel rapporto tra uomo e tecnologia, e della grafica in combinazione al digitale. 

Nel ritornare all’importanza della nostra fisicità – che oggi appare cosi distante – uno degli scenari più interessanti consiste, dunque, nell’adozione della corporeità come singolare punto di partenza e arrivo del progetto. La tangibilità della nostra esistenza transita cosi attraverso filtri IG e ambiti come l’augumented reality, per un’esplorazione sia speculativa che visiva dell’essere umano, completamente integrato in una dimensione ibrida. Un’interpretazione di tale fusione ci viene fornita da Florian Cramer che la descrive non come la fine del digitale, ma come una sua evoluzione progressiva, (Cramer, 2014, p.13) un processo logico che avvicina gli uomini ad una maggiore consapevolezza della loro contemporaneità. “In ogni trasformazione, dai fori che i primitivi praticavano nelle labbra, nelle orecchie, nel naso, nei genitali, agli abiti, gli ornamenti, ai gioielli, l’uomo, unico tra gli animali, non ha mai smesso di giocare col proprio corpo, nel tentativo continuo di superarne i limiti e la conseguente rigidità dell’immagine.” (Galimberti, 1983, p. 326). 

La necessità di riportare il corpo organico al centro della tecnologia e dei suoi processi di trasformazione va intesa, dunque, come la volontà di una partecipazione all’evoluzione della società, per una riontologizzazione del suo status quo e l’esplorazione di nuovi modi d’essere e aprirsi al mondo. La prospettiva corporea nel senso del vivente – il cosiddetto Leib tedesco di Heidegger – viene cosi ad essere rappresentata oggi dall’emergere di quest’insieme di pratiche miste che, sebbene siano percepibili solo attraverso un display, nel loro rinsaldarsi al corpo, esprimono ancora una volta quella necessità del sentire, profondamente umana. 

Bibliografia

Alexenberg, M. (2011). The Future of Art in a Postdigital Age. Bristol: Intellect Ltd.
Baudrillard, J. (2002). Il virtuale. In Parole chiave. Roma: Armando Editore. 
Florian, C. (2014). What is Postdigital? APRJA Journal Vol.3 Post-Digital Research. Aarhus: Aarhus University and Transmediale/Art and Digital Culture.
Frisa, M.L. (2020). La censura del nostro corpo pubblico. Flash Art n.349 – giugno/agosto 2020. Milano: Giancarlo Politi Editore.
Foucault, M. (2004). (ed.it. 2020). Il corpo utopico. In Utopie Eterotopie. Napoli: Cronopio. 
Galimberti U. (1983). Il corpo e la sua immagine. In Il corpo. Milano: Feltrinelli. 
Heidegger, M. (1964). (ed.it.2000). Corpo e spazio. Genova: Il Melangolo. 
Jaskowska, J. (2020). Let’s flirt with technology. Retreived from: https://www.instagram.com/johwska/

PROGETTO GRAFICO n°

Giugno / 2022

Man mano che la nostra anima si concentra sugli oggetti, possiamo sentire nel nostro cuore spezzato il mondo nella sua interezza e accettare le nostre sofferenze. Ciò che rende possibile questa accettazione è custodito negli sguardi degli spettatori: non è alla bottiglia di gassosa che Kemal aveva conservato per anni vicino alla testiera del letto perché Füsun l’aveva sfiorata con le labbra, né al cuore di porcellana rotto che ci rivolgiamo, ma alla folla che c’è dietro, all’altro mondo, a un luogo fuori dal Tempo – a voi.

Orhan Pamuk, 2012[1]

In svariati progetti contemporanei di musei permanenti e mostre temporanee, i sentimenti della perdita e del lutto hanno guidato la costruzione di raccolte e di collezioni di oggetti, protagoniste di esposizioni, anche fortemente sperimentali.

In esse, la cultura materiale viene portata al centro della narrazione. L’oggetto comune, anonimo per origine, ma intimamente familiare, tangibile, in una riconosciuta capacità di evocare e di ricomporre la memoria di momenti andati in frantumi, fornisce al visitatore un’opportunità significativa di condivisione empatica, sia sul piano umano, suscitando un nucleo di sentimenti e di emozioni profonde e condivisibili, che su quello storico, individuando e avvicinando i visitatori ai principi fondamentali di convivenza di una società collaborativa. La reazione psicologica suscitata dal rapporto diretto con l’oggetto, sopravvissuto alla perdita, è per il visitatore l’inizio di un processo di riconoscimento (di catarsi e accettazione del dolore) ritrovato in un comune sentire, collettivo, universale.

Concepiti come luoghi dell’incontro e della relazione, i musei contemporanei si aprono alle comunità e alle storie individuali, perseguendo l’obiettivo di una necessaria rivoluzione culturale, che favorisca la costruzione di un terreno di dialogo e di cooperazione tra gli individui, discutendone le dimensioni etiche e indagando su come essa possa dirigersi verso la creazione di una società globale sinergica e interconnessa.

All’interno delle politiche museologiche contemporanee si assiste ad un radicale cambio di paradigma che interviene nelle scritture espositive e nelle strategie di emotional engagement. Nuove strategie di audience development[2] sottolineano l’importanza dell’accessibilità museale, descritta attraverso l’attivazione di processi progettuali coinvolgenti e partecipativi che, tramite una costruzione narrativa significativa, sappiano produrre connessioni, condivisione e consapevolezza[3].

Con pesi e sfumature diversi, una grande quantità di progetti costruiti “dal basso” costituiscono riferimenti strategici per attivare un’ampia riflessione sul significato e sul ruolo delle produzioni culturali nella contemporaneità e sull’importanza del dialogo e dell’inclusività in processi progettuali innovativi, in grado di intervenire nelle politiche del quotidiano generando effetti positivi per le persone e per le comunità.  

Intorno all’empatia sono nate numerose e nuove forme di pensiero poste alla base di molti progetti contemporanei[4]e di buone pratiche sociali, basate sulla cooperazione, all’interno di processi di produzione (e condivisione) culturale. In queste nuove prospettive di patrimonializzazione, anche interamente gestite dalle comunità, il design, quale facilitatore dialogico e relazionale, in grado di saper leggere e interpretare la complessità dei fenomeni, si trova sempre più spesso ad operare all’interno di strategie progettuali che sappiano sviluppare nuove modalità di condivisione e sappiano generare cultura e consapevolezza identitaria.

Nello scenario contemporaneo, il design può definirsi come un attivatore sociale, in grado di orientare la società al benessere collettivo promuovendo comportamenti collaborativi mediante l’attivazione di esperienze condivise[5].

In tali nuove prospettive, i musei sono a un punto di svolta per il ruolo e la rilevanza che si propongono di assumere all’interno della società contemporanea. Essi possono assumere un ruolo proattivo nella costruzione e diffusione di conoscenza, coinvolgendo il pubblico nei processi di produzione di contenuti scientifici e culturali[6] e nella costruzione di un sistema valoriale comune. 

L’ambito multidisciplinare dell’exhibition design, presente nell’interezza dei processi, interviene nella progettazione di un ambiente relazionale fortemente comunicativo, narrativo, proiettato al coinvolgimento delle persone e alla promozione di trasformazioni socio-comportamentali da diffondere in un campo d’azione comune. All’exhibition spetta il ruolo di decidere come rappresentare la storia che le collezioni raccontano, in modo da creare connessioni ed attivare relazioni e cooperazione, senza generare sovrastrutture di significato, ma ponendo al centro gli oggetti e la narrazione (salvifica) dei quali si fanno portatori.

 

Storie di oggetti, di sogni, d’amore perduti. I progetti.

Il Jüdische Museum di Berlino è il progetto capostipite di una pratica espositiva – e di rinnovate ragioni museologiche – che, facendo leva sulla capacità degli oggetti di istituire un rapporto di prossimità emotiva e di immedesimazione del visitatore con la perdita subita dalle vittime del genocidio nazista, in un processo di rispecchiamento e di conoscenza, promuove una preziosa presa di coscienza utile alla previsionalità di azioni future pacifiche e filantropiche[7].

Gli oggetti narrano le storie personali che contribuiscono ad evidenziare aspetti controversi e nascosti rispetto la storia ufficiale. Le implicazioni culturali, storiche, sociali, affettive contenute in essi li rendono strumenti dal forte grado relazionale e testimoniale, «che un giorno diranno chi siamo alle generazioni future»[8].

La vicinanza fisica ed emotiva suscitata da oggetti di uso comune, si colloca alla base di una serie di progetti contemporanei la cui missione culturale di ricordare, e nel contempo denunciare, l’orrore di violente azioni di odio e intolleranza a svantaggio di minoranze etniche, si realizza attraverso la raccolta, la conservazione e l’esposizione di collezioni di oggetti appartenuti alle vittime[9] (Fig. 1), che acquisiscono un significato straordinario[10] di speranza. Nella mostra Stories of survival: object image – memory organizzata dall’Illinois Holocaust Museum & Education Center, più di 60 oggetti personali portati in America dai sopravvissuti all’Olocausto e al genocidio in tutto il mondo (tra cui Armenia, Bosnia, Cambogia, Iraq, Ruanda, Sud Sudan e Siria) sono esposti insieme alle fotografie del documentarista Jim Lommasson (Fig. 2). Le storie scritte a mano dai sopravvissuti e dai loro familiari sono restituite graficamente in composizione con le fotografie degli oggetti in mostra; il racconto di vite strappate ad una placida quotidianità si fa più vivo; il visitatore lo sente vicino, tangibile, potenzialmente proprio.

Il progetto per un Museo, Archivio e Centro sulle migrazioni del Mediterraneo[11] di Lampedusa, nato con l’obiettivo di costituire un museo diffuso che avrebbe custodito gli oggetti recuperati dai soccorritori nei barconi in fondo al mare, nasce come «luogo di accoglienza e di riflessione per raccontare, attraverso l’archivio e i suoi materiali, le storie delle culture migranti e i processi in atto nel Mediterraneo»[12]. Nel contempo l’attività di ricerca antropologica, storica e artistica, riconosce ai reperti un valore di testimonianza storica fondamentale, attraverso cui leggere e interpretare i fenomeni migratori, entro una dimensione umana di carattere universale. Sviluppato da un team di storici dell’arte, antropologi, esperti di migrazioni, l’obiettivo di una fondazione che accogliesse le competenze delle persone migranti e le integrasse in un percorso inclusivo, coniuga l’approccio scientifico ad una dimensione politica e sociale[13]. In mostra, nella loro nudità essenziale, gli oggetti esposti sono i simboli di una materialità reputata indispensabile per poter affrontare il viaggio verso il sogno di una vita migliore. L’apertura del Museo della fiducia e del dialogo per il Mediterraneo[14], nella stessa isola, con l’intento di confrontare e «ricomporre la storia millenaria del Mediterraneo, con le sue straordinarie e variegate espressioni culturali, ma anche i suoi drammi»[15], struttura un percorso espositivo di oggetti che trova il culmine significativo in un racconto multimediale di suoni e immagini in movimento, una stanza del naufragio (Fig. 3), nella quale l’enfasi dell’esperienza della traversata, ne racconta e ne trasferisce la fatica, il rischio di chi è disposto a perdere tutto nel desiderio di trovare il futuro.

La scrittura museale di questi progetti incarna l’idea di un museo inteso quale dispositivo disciplinante, catartico, capace di neutralizzare (o convogliare come energia positiva) il portato emotivo, doloroso della perdita e della separazione, attraverso il potere degli oggetti esposti.

Situato nel palazzo barocco di Kulmer nella Città Alta di Zagabria, il Museo delle relazioni interrotte, fondato dalla produttrice cinematografica Olinka Vištica e dallo scultore Dražen Grubiši, al termine della loro storia d’amore durata quattro anni, si nutre di collezioni di oggetti donati da ex amanti[16], basandosi su un processo di patrimonializzazione interamente affidato alla comunità e alle storie individuali. Lo spazio espositivo del museo[17], in un ambiente terso e interamente bianco, espone con essenzialità la collezione dei reperti (Fig. 4). In mostra con il riferimento della data e del luogo della relazione (unico tratto biografico che li contraddistingue) gli oggetti, esclusivamente accompagnati dalle annotazioni e dai micro-racconti scritti dai donatori medesimi, divengono i protagonisti di “‘percorsi consapevoli di ’accettazione” della perdita e della separazione[18], estensibili ad un’esperienza  universale[19] (Fig. 5).

Ispirato all’omonimo romanzo di Orhan Pamuk, il Museo dell’Innocenza di Instanbul raccoglie gli oggetti ossessivamente collezionati da Kemal, in ricordo dell’amata Füsun.

Nelle piccole teche lignee che scandiscono i capitoli dell’opera letteraria, gli oggetti esposti sono in grado di rivelare emozioni e significati del tutto nuovi, grazie alla relazione che instaurano tra essi (Fig. 6).

«L’operazione concettuale condotta da Pamuk rende gli oggetti racchiusi nelle vetrine (oggetti trovati, quotidiani, non preziosi, scovati nei mercatini istanbulioti) non importanti in quanto originali ma in quanto dispositivo di narrazione»[20]. I micro-paesaggi raccontati dagli oggetti nelle teche/wunderkammer di Pamuk, entrando in risonanza con la sfera più emozionale e intima di ogni persona, affondano nel repertorio privato emotivo personale.

Nel contempo, le implicazioni culturali contenute negli oggetti divengono anche l’espediente narrativo per ricostruire il racconto significativo di un’intera nazione, della sua cultura, dei suoi usi e costumi, delle persone che la abitano. Tre tipi di impianti audio[21] presenti nel museo contribuiscono a restituire il paesaggio sonoro quotidiano della Istanbul all’epoca in cui si svolge la storia del romanzo (il sibilo di un battello a vapore, il fischietto di una guardia notturna, le voci squillanti del venditore di boza e quelle dei passanti), immergendo lo spazio espositivo del museo (e il visitatore) in un’atmosfera immersiva e coinvolgente.

«Costruiti intorno alle persone e alle loro storie, nelle quali anche gli oggetti più quotidiani acquistano forza e pregnanza»[22], i musei della contemporaneità[23] riguardano visioni e orizzonti desiderabili verso i quali muoversi, come scenari all’interno dei quali attivare processi di comprensione dell’altro, promuovere contesti di azione favorevoli all’uomo e alla comunità globale, mettendo in gioco i comportamenti culturali delle persone, la loro stessa antropologia culturale, la loro disponibilità ad aprirsi. Si tratta di obiettivi complessi, ma la sfida per riportare gli istituti museali a svolgere un ruolo di primaria importanza nella società contemporanea rende necessario interpretare e reinterpretare i processi culturali come portatori di innovazione, utilizzando, nel caso dei musei, anche le collezioni e gli oggetti per la creazione di nuovo valore e di orientamento al futuro[24].

Bibliografia

Libri

  • Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia. La corsa verso la coscienza globale nel mondo della crisi, Milano, Mondadori, 2010
  • Isabella Pezzini, Semiotica dei nuovi musei, Roma, Laterza, 2010
  • Orhan Pamuk, L’innocenza degli oggetti. Museo dell’innocenza, Istanbul, Torino, Einaudi, 2012
  • Ezio Manzini, Design, When Everybody Designs. An Introduction to Design for Social Innovation, Massachusetts, London, The MIT Press Cambridge, 2015
  • Olinka Vištica e Dražen Grubišić, Il museo delle relazioni interrotte. Ciò che resta dell’amore, in 203 oggetti, Milano, Mondadori, 2018
  • Michela Rota, Musei per la sostenibilità integrata, Milano, Editrice Bibliografica, 2019

Articoli

  • Mara Rossi, Life Behaviour Design, in «DiiD» 58/14D, 2014
  • Anna Chiara Cimoli, Musei, pregiudizi, empatia. Gettare il corpo nel dialogo in «Roots and Routes. Research on visual cultures», 2016
    https://www.roots-routes.org/musei-pregiudizi-empatia-gettare-corpo-nel-dialogoannachiara-cimoli/
  • Mara Rossi, Migliorare i comportamenti e le relazioni sociali mediante l’innovazione dei processi partecipativi driven design in «I+Diseño», Vol. 11, aprile, 2016
  • Elena Inchingolo, NUOVE PROSPETTIVE MUSEOLOGICHE: LA CULTURA COME DISPOSITIVO DI RELAZIONE ED INCLUSIVITÀ in «Il Giornale delle Fondazioni», Umberto Allemandi & C., 2018. http://www.ilgiornaledellefondazioni.com/content/nuove-prospettive-museologiche-la-cultura-come-dispositivo-di-relazione-ed-inclusivit%C3%A0
  • Maria Giovanna Mancini, Soggettività ed empatia: il Museo delle Relazioni interrotte di Zagabria in Invernizzi S., Maillet A., Villa G. C. F.  (2019), (a cura di), Dove va il museo, Centro Arti Visive Università degli Studi di Bergamo, 2019 Disponibile su http://cav.unibg.it/elephant_castle

PROGETTO GRAFICO n°

Giugno / 2022

Man mano che la nostra anima si concentra sugli oggetti, possiamo sentire nel nostro cuore spezzato il mondo nella sua interezza e accettare le nostre sofferenze. Ciò che rende possibile questa accettazione è custodito negli sguardi degli spettatori: non è alla bottiglia di gassosa che Kemal aveva conservato per anni vicino alla testiera del letto perché Füsun l’aveva sfiorata con le labbra, né al cuore di porcellana rotto che ci rivolgiamo, ma alla folla che c’è dietro, all’altro mondo, a un luogo fuori dal Tempo – a voi.

Orhan Pamuk, 2012[1]

In svariati progetti contemporanei di musei permanenti e mostre temporanee, i sentimenti della perdita e del lutto hanno guidato la costruzione di raccolte e di collezioni di oggetti, protagoniste di esposizioni, anche fortemente sperimentali.

In esse, la cultura materiale viene portata al centro della narrazione. L’oggetto comune, anonimo per origine, ma intimamente familiare, tangibile, in una riconosciuta capacità di evocare e di ricomporre la memoria di momenti andati in frantumi, fornisce al visitatore un’opportunità significativa di condivisione empatica, sia sul piano umano, suscitando un nucleo di sentimenti e di emozioni profonde e condivisibili, che su quello storico, individuando e avvicinando i visitatori ai principi fondamentali di convivenza di una società collaborativa. La reazione psicologica suscitata dal rapporto diretto con l’oggetto, sopravvissuto alla perdita, è per il visitatore l’inizio di un processo di riconoscimento (di catarsi e accettazione del dolore) ritrovato in un comune sentire, collettivo, universale.

Concepiti come luoghi dell’incontro e della relazione, i musei contemporanei si aprono alle comunità e alle storie individuali, perseguendo l’obiettivo di una necessaria rivoluzione culturale, che favorisca la costruzione di un terreno di dialogo e di cooperazione tra gli individui, discutendone le dimensioni etiche e indagando su come essa possa dirigersi verso la creazione di una società globale sinergica e interconnessa.

All’interno delle politiche museologiche contemporanee si assiste ad un radicale cambio di paradigma che interviene nelle scritture espositive e nelle strategie di emotional engagement. Nuove strategie di audience development[2] sottolineano l’importanza dell’accessibilità museale, descritta attraverso l’attivazione di processi progettuali coinvolgenti e partecipativi che, tramite una costruzione narrativa significativa, sappiano produrre connessioni, condivisione e consapevolezza[3].

Con pesi e sfumature diversi, una grande quantità di progetti costruiti “dal basso” costituiscono riferimenti strategici per attivare un’ampia riflessione sul significato e sul ruolo delle produzioni culturali nella contemporaneità e sull’importanza del dialogo e dell’inclusività in processi progettuali innovativi, in grado di intervenire nelle politiche del quotidiano generando effetti positivi per le persone e per le comunità.  

Intorno all’empatia sono nate numerose e nuove forme di pensiero poste alla base di molti progetti contemporanei[4]e di buone pratiche sociali, basate sulla cooperazione, all’interno di processi di produzione (e condivisione) culturale. In queste nuove prospettive di patrimonializzazione, anche interamente gestite dalle comunità, il design, quale facilitatore dialogico e relazionale, in grado di saper leggere e interpretare la complessità dei fenomeni, si trova sempre più spesso ad operare all’interno di strategie progettuali che sappiano sviluppare nuove modalità di condivisione e sappiano generare cultura e consapevolezza identitaria.

Nello scenario contemporaneo, il design può definirsi come un attivatore sociale, in grado di orientare la società al benessere collettivo promuovendo comportamenti collaborativi mediante l’attivazione di esperienze condivise[5].

In tali nuove prospettive, i musei sono a un punto di svolta per il ruolo e la rilevanza che si propongono di assumere all’interno della società contemporanea. Essi possono assumere un ruolo proattivo nella costruzione e diffusione di conoscenza, coinvolgendo il pubblico nei processi di produzione di contenuti scientifici e culturali[6] e nella costruzione di un sistema valoriale comune. 

L’ambito multidisciplinare dell’exhibition design, presente nell’interezza dei processi, interviene nella progettazione di un ambiente relazionale fortemente comunicativo, narrativo, proiettato al coinvolgimento delle persone e alla promozione di trasformazioni socio-comportamentali da diffondere in un campo d’azione comune. All’exhibition spetta il ruolo di decidere come rappresentare la storia che le collezioni raccontano, in modo da creare connessioni ed attivare relazioni e cooperazione, senza generare sovrastrutture di significato, ma ponendo al centro gli oggetti e la narrazione (salvifica) dei quali si fanno portatori.

 

Storie di oggetti, di sogni, d’amore perduti. I progetti.

Il Jüdische Museum di Berlino è il progetto capostipite di una pratica espositiva – e di rinnovate ragioni museologiche – che, facendo leva sulla capacità degli oggetti di istituire un rapporto di prossimità emotiva e di immedesimazione del visitatore con la perdita subita dalle vittime del genocidio nazista, in un processo di rispecchiamento e di conoscenza, promuove una preziosa presa di coscienza utile alla previsionalità di azioni future pacifiche e filantropiche[7].

Gli oggetti narrano le storie personali che contribuiscono ad evidenziare aspetti controversi e nascosti rispetto la storia ufficiale. Le implicazioni culturali, storiche, sociali, affettive contenute in essi li rendono strumenti dal forte grado relazionale e testimoniale, «che un giorno diranno chi siamo alle generazioni future»[8].

La vicinanza fisica ed emotiva suscitata da oggetti di uso comune, si colloca alla base di una serie di progetti contemporanei la cui missione culturale di ricordare, e nel contempo denunciare, l’orrore di violente azioni di odio e intolleranza a svantaggio di minoranze etniche, si realizza attraverso la raccolta, la conservazione e l’esposizione di collezioni di oggetti appartenuti alle vittime[9] (Fig. 1), che acquisiscono un significato straordinario[10] di speranza. Nella mostra Stories of survival: object image – memory organizzata dall’Illinois Holocaust Museum & Education Center, più di 60 oggetti personali portati in America dai sopravvissuti all’Olocausto e al genocidio in tutto il mondo (tra cui Armenia, Bosnia, Cambogia, Iraq, Ruanda, Sud Sudan e Siria) sono esposti insieme alle fotografie del documentarista Jim Lommasson (Fig. 2). Le storie scritte a mano dai sopravvissuti e dai loro familiari sono restituite graficamente in composizione con le fotografie degli oggetti in mostra; il racconto di vite strappate ad una placida quotidianità si fa più vivo; il visitatore lo sente vicino, tangibile, potenzialmente proprio.

Il progetto per un Museo, Archivio e Centro sulle migrazioni del Mediterraneo[11] di Lampedusa, nato con l’obiettivo di costituire un museo diffuso che avrebbe custodito gli oggetti recuperati dai soccorritori nei barconi in fondo al mare, nasce come «luogo di accoglienza e di riflessione per raccontare, attraverso l’archivio e i suoi materiali, le storie delle culture migranti e i processi in atto nel Mediterraneo»[12]. Nel contempo l’attività di ricerca antropologica, storica e artistica, riconosce ai reperti un valore di testimonianza storica fondamentale, attraverso cui leggere e interpretare i fenomeni migratori, entro una dimensione umana di carattere universale. Sviluppato da un team di storici dell’arte, antropologi, esperti di migrazioni, l’obiettivo di una fondazione che accogliesse le competenze delle persone migranti e le integrasse in un percorso inclusivo, coniuga l’approccio scientifico ad una dimensione politica e sociale[13]. In mostra, nella loro nudità essenziale, gli oggetti esposti sono i simboli di una materialità reputata indispensabile per poter affrontare il viaggio verso il sogno di una vita migliore. L’apertura del Museo della fiducia e del dialogo per il Mediterraneo[14], nella stessa isola, con l’intento di confrontare e «ricomporre la storia millenaria del Mediterraneo, con le sue straordinarie e variegate espressioni culturali, ma anche i suoi drammi»[15], struttura un percorso espositivo di oggetti che trova il culmine significativo in un racconto multimediale di suoni e immagini in movimento, una stanza del naufragio (Fig. 3), nella quale l’enfasi dell’esperienza della traversata, ne racconta e ne trasferisce la fatica, il rischio di chi è disposto a perdere tutto nel desiderio di trovare il futuro.

La scrittura museale di questi progetti incarna l’idea di un museo inteso quale dispositivo disciplinante, catartico, capace di neutralizzare (o convogliare come energia positiva) il portato emotivo, doloroso della perdita e della separazione, attraverso il potere degli oggetti esposti.

Situato nel palazzo barocco di Kulmer nella Città Alta di Zagabria, il Museo delle relazioni interrotte, fondato dalla produttrice cinematografica Olinka Vištica e dallo scultore Dražen Grubiši, al termine della loro storia d’amore durata quattro anni, si nutre di collezioni di oggetti donati da ex amanti[16], basandosi su un processo di patrimonializzazione interamente affidato alla comunità e alle storie individuali. Lo spazio espositivo del museo[17], in un ambiente terso e interamente bianco, espone con essenzialità la collezione dei reperti (Fig. 4). In mostra con il riferimento della data e del luogo della relazione (unico tratto biografico che li contraddistingue) gli oggetti, esclusivamente accompagnati dalle annotazioni e dai micro-racconti scritti dai donatori medesimi, divengono i protagonisti di “‘percorsi consapevoli di ’accettazione” della perdita e della separazione[18], estensibili ad un’esperienza  universale[19] (Fig. 5).

Ispirato all’omonimo romanzo di Orhan Pamuk, il Museo dell’Innocenza di Instanbul raccoglie gli oggetti ossessivamente collezionati da Kemal, in ricordo dell’amata Füsun.

Nelle piccole teche lignee che scandiscono i capitoli dell’opera letteraria, gli oggetti esposti sono in grado di rivelare emozioni e significati del tutto nuovi, grazie alla relazione che instaurano tra essi (Fig. 6).

«L’operazione concettuale condotta da Pamuk rende gli oggetti racchiusi nelle vetrine (oggetti trovati, quotidiani, non preziosi, scovati nei mercatini istanbulioti) non importanti in quanto originali ma in quanto dispositivo di narrazione»[20]. I micro-paesaggi raccontati dagli oggetti nelle teche/wunderkammer di Pamuk, entrando in risonanza con la sfera più emozionale e intima di ogni persona, affondano nel repertorio privato emotivo personale.

Nel contempo, le implicazioni culturali contenute negli oggetti divengono anche l’espediente narrativo per ricostruire il racconto significativo di un’intera nazione, della sua cultura, dei suoi usi e costumi, delle persone che la abitano. Tre tipi di impianti audio[21] presenti nel museo contribuiscono a restituire il paesaggio sonoro quotidiano della Istanbul all’epoca in cui si svolge la storia del romanzo (il sibilo di un battello a vapore, il fischietto di una guardia notturna, le voci squillanti del venditore di boza e quelle dei passanti), immergendo lo spazio espositivo del museo (e il visitatore) in un’atmosfera immersiva e coinvolgente.

«Costruiti intorno alle persone e alle loro storie, nelle quali anche gli oggetti più quotidiani acquistano forza e pregnanza»[22], i musei della contemporaneità[23] riguardano visioni e orizzonti desiderabili verso i quali muoversi, come scenari all’interno dei quali attivare processi di comprensione dell’altro, promuovere contesti di azione favorevoli all’uomo e alla comunità globale, mettendo in gioco i comportamenti culturali delle persone, la loro stessa antropologia culturale, la loro disponibilità ad aprirsi. Si tratta di obiettivi complessi, ma la sfida per riportare gli istituti museali a svolgere un ruolo di primaria importanza nella società contemporanea rende necessario interpretare e reinterpretare i processi culturali come portatori di innovazione, utilizzando, nel caso dei musei, anche le collezioni e gli oggetti per la creazione di nuovo valore e di orientamento al futuro[24].

Bibliografia

Libri

  • Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia. La corsa verso la coscienza globale nel mondo della crisi, Milano, Mondadori, 2010
  • Isabella Pezzini, Semiotica dei nuovi musei, Roma, Laterza, 2010
  • Orhan Pamuk, L’innocenza degli oggetti. Museo dell’innocenza, Istanbul, Torino, Einaudi, 2012
  • Ezio Manzini, Design, When Everybody Designs. An Introduction to Design for Social Innovation, Massachusetts, London, The MIT Press Cambridge, 2015
  • Olinka Vištica e Dražen Grubišić, Il museo delle relazioni interrotte. Ciò che resta dell’amore, in 203 oggetti, Milano, Mondadori, 2018
  • Michela Rota, Musei per la sostenibilità integrata, Milano, Editrice Bibliografica, 2019

Articoli

  • Mara Rossi, Life Behaviour Design, in «DiiD» 58/14D, 2014
  • Anna Chiara Cimoli, Musei, pregiudizi, empatia. Gettare il corpo nel dialogo in «Roots and Routes. Research on visual cultures», 2016
    https://www.roots-routes.org/musei-pregiudizi-empatia-gettare-corpo-nel-dialogoannachiara-cimoli/
  • Mara Rossi, Migliorare i comportamenti e le relazioni sociali mediante l’innovazione dei processi partecipativi driven design in «I+Diseño», Vol. 11, aprile, 2016
  • Elena Inchingolo, NUOVE PROSPETTIVE MUSEOLOGICHE: LA CULTURA COME DISPOSITIVO DI RELAZIONE ED INCLUSIVITÀ in «Il Giornale delle Fondazioni», Umberto Allemandi & C., 2018. http://www.ilgiornaledellefondazioni.com/content/nuove-prospettive-museologiche-la-cultura-come-dispositivo-di-relazione-ed-inclusivit%C3%A0
  • Maria Giovanna Mancini, Soggettività ed empatia: il Museo delle Relazioni interrotte di Zagabria in Invernizzi S., Maillet A., Villa G. C. F.  (2019), (a cura di), Dove va il museo, Centro Arti Visive Università degli Studi di Bergamo, 2019 Disponibile su http://cav.unibg.it/elephant_castle

PROGETTO GRAFICO n°

Aprile / 2021

È il primo aprile del 2018 quando Google, nel contesto della Design Week di Milano, presenta Softwear: un’installazione curata da Lidewij Edelkoort, all’interno della Galleria Rossana Orlandi. Tra tappeti morbidi, arazzi di colori pastello, smartphone e assistenti domestici, Softwear racconta una nuova relazione tra software, hardware e ambiente circostante. Il software informa il computer, si legge nei materiali di comunicazione, proprio come il Softwear forma lo stile di vita del lavoratore contemporaneo, in cui lavoro e tempo libero risultano sempre meno distinti. «Il futuro del nostro lavoro è destinato a cambiare: per risparmiare tempo e denaro e massimizzare l’energia e la produttività, cominceremo a lavorare un po’ da casa, nella nostra mente.» continua Edelkoort. L’idea del Softwear nasce già nel 1998, inquadrando la tendenza a sovrapporre sempre più lo spazio della casa, privato, con lo spazio del lavoro, l’ufficio. Nell’ottica di Google l’intero progetto è propedeutico alla promozione dei suoi nuovi prodotti, che integrano una componente soft nel design proprio per sposarsi perfettamente con l’ammorbidimento dello spazio domestico. L’assistente Google, le cover per smartphone e gli smartphone stessi diventano più confortevoli, pacati, soffici, inseriti perfettamente tra gli oggetti altrettanto comodi della casa, proprio per diventare spazi in cui sedersi, sdraiarsi, appoggiarsi mentre si lavora. In una parola: più confortevoli. Il raggio d’azione di Softwear non si limita a ciò che generalmente consideriamo tecnologia, ma include anche l’arredamento e il guardaroba, prefigurando lo sviluppo, già in atto, di un vero e proprio nido domestico.

Se l’idea canonica di ufficio imponeva l’esistenza di spazi separati dedicati a specifiche attività e garantiva al lavoratore una serie di servizi utili al lavoro stesso, lo spazio domestico rappresenta un modo totalmente diverso di approcciarsi al lavoro. C’è un elemento che ha permesso più di ogni altro la nascita e la diffusione dello smart working e della “flessibilità” lavorativa: lo spazio digitale dell’interfaccia.

Quando si lavora da casa, ogni luogo diventa un possibile spazio di lavoro (le immagini di Softwear ci mostrano persone che, avvolte da morbide coperte, lavorano al computer sdraiate su divani e letti) perché è l’interfaccia stessa a rappresentare questo spazio. Ma se lo spazio-tempo dell’ufficio scandiva le fasi del lavoro, lo spazio-tempo digitale non ha orari: esiste sempre, «sia come attualità (la mail a cui si sta rispondendo), sia come potenzialità (la notifica rossa delle mail non ancora lette)»[1]. L’ufficio diviene metafora[2] e l’interfaccia uno spazio perennemente adibito al lavoro che, per funzionare, trae linfa vitale dal progressivo adattamento dei luoghi della città alle sue personali necessità: non solo caffè e hotel, ma smart cities, la cui connettività perenne consente alle interfacce di funzionare dovunque e sempre[3]. L’interfaccia non si limita a concretizzarsi come condizione necessaria all’attività lavorativa, ma diventa anche l’unico modo tramite cui il lavoratore può imparare a controllare sé stesso e il proprio tempo.

Dopo aver cambiato il modo in cui il designer si approccia alla ricerca, divenuta più simile a una ricezione semipassiva di contenuti forniti da un algoritmo, e alla progettazione, influenzata dagli stessi software utilizzati, le interfacce hanno trasformato anche la dimensione gestionale e organizzativa del designer imprenditore di sé stesso.

Dal momento che il lavoro immateriale è per sua stessa natura difficile da quantificare, le interfacce tentano di dare innanzitutto una forma finita alla produttività, imponendo una scansione temporale del lavoro e assicurando una produzione continua. Perdere il controllo non è un’opzione: il lavoro raggiungerà il lavoratore ovunque egli sia, rendendo il tempo una costante opportunità per produrre. Anche lo svago, spesso concepito come l’opposto della produttività, viene fagocitato e disinnescato da questa logica, rivelandosi invece un suo importante alleato. Il godimento è infatti il centro della nuova economia delle interfacce, dal momento che queste ultime sono riuscite a integrarlo perfettamente nei propri sistemi. Nel contesto economico globale il godimento può essere produttivo o improduttivo[4] e nonostante il primo venga considerato funzionale alle strutture sociali e il secondo insensato, sono in realtà complementari poiché «nell’insieme mostrano gli effetti sociali del godimento e concorrono alla costruzione della moderna soggettività capitalistica»[5]. La dimensione “imprendicaria” risente molto del tema del piacere, poiché la retorica stessa della Silicon Valley presenta il piacere come uno “stato di natura”, instillando nell’uomo la convinzione che il godimento sia portatore di libertà e autonomia in quanto sintomo della soggettività: «più godiamo, più diventiamo soggetti capitalistici individualistici»[6].

Così le interfacce, attraverso precise scelte grafiche e interazioni, si fanno più soft per adattarsi al nuovo ecosistema domestico, più giocose per catalizzare il godimento e più confortevoli per tranquillizzare l’utente. La produttività diventa quindi una vera e propria forma estetica indirizzata alla creazione di una finta forma di autocontrollo. Rispondendo alla necessità dell’uomo di astrarre e ordinare il caos [7], questa estetica si dispiega sotto forma di grafici, task, elenchi, notifiche, indici, percentuali e icone, restituendo all’utente un’immagine chiara e comprensibile del proprio operato. Gli algoritmi gestiscono per noi gli aspetti caotici del lavoro configurandosi non più come semplici assistenti ma come veri e propri datori di lavoro invisibili, che controllano lo spazio dell’azione. Le interfacce alimentano così l’illusione che il lavoro possa essere sempre produttivo e ordinato, grazie a un’ambiguità intenzionale di fondo che pervade l’intero processo e nutre l’impressione che queste siano più reattive ed efficienti di quanto non lo siano in realtà.

Ma in che modo l’illusione di controllo, il godimento e la produttività convergono nelle interfacce? Nel contesto del software a scopo gestionale ritroviamo molti di questi temi a livello estetico, narrativo e metaforico, assistendo a un fenomeno per cui la gestione del proprio spazio, del proprio tempo e delle proprie risorse lavorative sfrutta la dimensione del godimento per rendersi più pervasiva. Ogni interazione effettuata tramite un’app o un software per la gestione della produzione lavorativa è connessa a un piccolo godimento intimo che diventa a sua volta produzione in tempo reale (è satisfying mettere il check a una task). Allo stesso tempo il godimento prodotto dalla distrazione gioca un ruolo fondamentale nel sublimare l’alienazione lavorativa, impedendo un giudizio critico verso le proprie condizioni. Anche laddove si cerchi riparo nell’ozio, si finisce per alimentare una realtà illusoria, ordinata e coerente, alla quale dobbiamo prima o poi tornare a far riferimento, lavorando: «distrarci durante l’attività lavorativa serve a conferire senso, valore, importanza al lavoro stesso»[8] (il T-Rex di Chrome ne è un perfetto esempio). È per questo che nei software per il project management si fa sempre più presente una componente di gioco. È quella che ormai è nota come gamification, un processo per cui i prodotti che danno forma a interi settori economici (la sharing economy) assumono forme e regole originarie del mondo dei videogiochi. L’interfaccia diventa simile a un gioco nelle forme e nell’interazione, andando a sovrapporsi al godimento improduttivo. Se lavorare è sempre più simile a giocare, decade anche la distinzione tra momento d’ozio e momento di lavoro, a favore di un ibrido tra i due momenti che risulta estremamente pericoloso. La distinzione tra lavoro e gioco si erode a causa di due fenomeni paralleli: nei videogiochi compiamo azioni sempre più simili a veri e propri lavori e le interfacce con cui lavoriamo somigliano sempre di più a videogiochi. Servizi come Uber, ad esempio, o Deliveroo, coinvolgono l’utente in dinamiche ludiche, astraendo al tempo stesso qualsiasi operazione scomoda come quella del pagamento, eliminando la complessità e le interazioni non necessarie. La costruzione di questo strato dell’interfaccia su molte aree della cultura e della società funziona e si diffonde grazie al ruolo di arbitro della fiducia ricoperto dall’interfaccia stessa. Nel contesto del progetto possiamo individuare dinamiche simili, tra cui quella dell’intimità. Quando utilizziamo un software per il project management come Monday, Basecamp, Trello o Asana stiamo affidando una parte del nostro lavoro a un servizio, riponendo la nostra fiducia in esso e nella sua capacità di mediare le nostre interazioni sociali. La logica è simile a quella delle app di food delivery: l’imbarazzo di farsi consegnare un pranzo viene lenito dall’interfaccia che ha mediato questa interazione. Allo stesso modo assegnare task, spostare le deadline e mettere pressione a un collega sono tutte azioni che vengono delegate all’interfaccia, capace di semplificare i processi e astrarli. L’interfaccia presiede così sia alla gestione di noi stessi che all’interazione lavorativa con i nostri collaboratori, rendendo il lavoro in ultima analisi più godibile. Il godimento, reso possibile dalla gamification imperante di questi sistemi, riesce a spingere il lavoratore a dare il massimo tramite un sistema di ricompense e micro-scariche di dopamina. Tra metriche, misurazioni e punteggi, gli strumenti gamificati incentivano anche la competizione, creano distacco dalle attività svolte e costringono a focalizzarsi sul breve termine. Quando si completa un’attività assegnata su Asana, la casella brilla velocemente gratificando l’utente mentre un piccolo unicorno colorato attraversa lo schermo lungo una diagonale. Asana permette inoltre di controllare in tempo reale quanto velocemente il team si sta avvicinando al prossimo obiettivo di progetto; alcuni indicatori verdi, gialli o rossi segnalano se il progetto sta procedendo rispettando il programma e le deadline definite; i lavoratori sono valutati in tempo reale in base alla loro produttività e quantificati in grafici e punteggi. L’intero flusso lavorativo, dal lavoratore autonomo alla grande azienda, è rappresentato come il tabellone dei risultati di un videogioco che si aggiorna in tempo reale. L’unicorno arcobaleno di Asana ci mostra un ulteriore aspetto fondamentale del processo di gamification, che per certi versi riprende il tema del Softwear di cui si è parlato in precedenza: la tendenza delle interfacce a divenire sempre più cute. Questo termine si riferisce al gusto estetico delle interfacce contemporanee, fatto di totale candore, pulizia, forme arrotondate e soluzioni grafiche e illustrazioni essenzialmente infantili[9]. Non si tratta soltanto di una semplice moda passeggera, ma di una reazione a un’era dell’ansia [10]. Se un tempo la cuteness era vista dal mondo del design come frivola e poco seria, oggi è diventato un tema ricorrente nel lavoro di studi indipendenti e nel circuito internazionale non solo dell’arredamento, ma di tutte le aree del design, tra cui anche quello grafico e delle interfacce. La sua crescente popolarità deriva da alcune leggi della biologia evolutiva per le quali i tratti tipici della morfologia infantile (occhi e testa grandi, gambe e braccia corte, rotondità) generano una risposta emotiva che porta a prendersi cura dell’oggetto in questione. Allo stesso modo, sedie, sgabelli e lampade da tavolo vengono progettati tenendo a mente queste regole mentali che portano al desiderio di volerli abbracciare, stringere o giocare con loro. Uno studio del 2011[11] ha esplorato come l’astrazione di queste morfologie nel product design possa portare a un maggior coinvolgimento da parte degli utenti, aumentando in ultima analisi la user satisfaction. Le interfacce non sono escluse da questa metamorfosi, come dimostra l’imponente rebranding di Google, nel quale quattro cerchi colorati si muovono giocosamente costruendo forme e icone facendo perdere anche al logo le spigolosità di un tempo, o l’altrettanto importante restyling di Facebook che, come molte altre realtà, ha adottato il linguaggio dell’illustrazione cartoonesca per comunicare. Dropbox ha rinnovato la propria identità visiva nel 2017 proponendo colori vivaci e giocosi, illustrazioni con creature buffe e animali composti da una molteplicità di pattern colorati e tratti a matita; Toggl, uno strumento per controllare il monte ore dei propri progetti, così come in passato possedeva un’identità basata sulle azioni bizzarre di mostriciattoli colorati assemblati con della pasta modellabile, oggi propone un’identità che riprende quel concept avvicinandosi più al mondo dell’oddly satisfying. Anche Google Home o Alexa sono oggetti tondeggianti, dotati di superfici morbide e abbastanza grandi e pesanti da essere presi in braccio come cuccioli. I pattern mentali biologici che portano a reagire in un certo modo all’esposizione alle forme infantili sono gli stessi che rendono le interfacce attraenti ai nostri occhi, consentendoci di godere nel prenderci cura di esse (come se fossero bambini in cerca di attenzioni). I software, le app, i web tools, da Asana a Gmail, da Dropbox a LinkedIn, diventano così dei controllori algoritmici estremamente elaborati avvolti da involucri amichevoli, che si presentano come assistenti intelligenti perennemente attivi.

Estratto da Less Exciting Times. Il designer come estensione del software. Tesi di laurea magistrale di Alessandro De Vecchi in Design della comunicazione, A.A. 2019/2020 – Politecnico di Milano. Relatore: Francesco Ermanno Guida.

PROGETTO GRAFICO n°

Aprile / 2021

È il primo aprile del 2018 quando Google, nel contesto della Design Week di Milano, presenta Softwear: un’installazione curata da Lidewij Edelkoort, all’interno della Galleria Rossana Orlandi. Tra tappeti morbidi, arazzi di colori pastello, smartphone e assistenti domestici, Softwear racconta una nuova relazione tra software, hardware e ambiente circostante. Il software informa il computer, si legge nei materiali di comunicazione, proprio come il Softwear forma lo stile di vita del lavoratore contemporaneo, in cui lavoro e tempo libero risultano sempre meno distinti. «Il futuro del nostro lavoro è destinato a cambiare: per risparmiare tempo e denaro e massimizzare l’energia e la produttività, cominceremo a lavorare un po’ da casa, nella nostra mente.» continua Edelkoort. L’idea del Softwear nasce già nel 1998, inquadrando la tendenza a sovrapporre sempre più lo spazio della casa, privato, con lo spazio del lavoro, l’ufficio. Nell’ottica di Google l’intero progetto è propedeutico alla promozione dei suoi nuovi prodotti, che integrano una componente soft nel design proprio per sposarsi perfettamente con l’ammorbidimento dello spazio domestico. L’assistente Google, le cover per smartphone e gli smartphone stessi diventano più confortevoli, pacati, soffici, inseriti perfettamente tra gli oggetti altrettanto comodi della casa, proprio per diventare spazi in cui sedersi, sdraiarsi, appoggiarsi mentre si lavora. In una parola: più confortevoli. Il raggio d’azione di Softwear non si limita a ciò che generalmente consideriamo tecnologia, ma include anche l’arredamento e il guardaroba, prefigurando lo sviluppo, già in atto, di un vero e proprio nido domestico.

Se l’idea canonica di ufficio imponeva l’esistenza di spazi separati dedicati a specifiche attività e garantiva al lavoratore una serie di servizi utili al lavoro stesso, lo spazio domestico rappresenta un modo totalmente diverso di approcciarsi al lavoro. C’è un elemento che ha permesso più di ogni altro la nascita e la diffusione dello smart working e della “flessibilità” lavorativa: lo spazio digitale dell’interfaccia.

Quando si lavora da casa, ogni luogo diventa un possibile spazio di lavoro (le immagini di Softwear ci mostrano persone che, avvolte da morbide coperte, lavorano al computer sdraiate su divani e letti) perché è l’interfaccia stessa a rappresentare questo spazio. Ma se lo spazio-tempo dell’ufficio scandiva le fasi del lavoro, lo spazio-tempo digitale non ha orari: esiste sempre, «sia come attualità (la mail a cui si sta rispondendo), sia come potenzialità (la notifica rossa delle mail non ancora lette)»[1]. L’ufficio diviene metafora[2] e l’interfaccia uno spazio perennemente adibito al lavoro che, per funzionare, trae linfa vitale dal progressivo adattamento dei luoghi della città alle sue personali necessità: non solo caffè e hotel, ma smart cities, la cui connettività perenne consente alle interfacce di funzionare dovunque e sempre[3]. L’interfaccia non si limita a concretizzarsi come condizione necessaria all’attività lavorativa, ma diventa anche l’unico modo tramite cui il lavoratore può imparare a controllare sé stesso e il proprio tempo.

Dopo aver cambiato il modo in cui il designer si approccia alla ricerca, divenuta più simile a una ricezione semipassiva di contenuti forniti da un algoritmo, e alla progettazione, influenzata dagli stessi software utilizzati, le interfacce hanno trasformato anche la dimensione gestionale e organizzativa del designer imprenditore di sé stesso.

Dal momento che il lavoro immateriale è per sua stessa natura difficile da quantificare, le interfacce tentano di dare innanzitutto una forma finita alla produttività, imponendo una scansione temporale del lavoro e assicurando una produzione continua. Perdere il controllo non è un’opzione: il lavoro raggiungerà il lavoratore ovunque egli sia, rendendo il tempo una costante opportunità per produrre. Anche lo svago, spesso concepito come l’opposto della produttività, viene fagocitato e disinnescato da questa logica, rivelandosi invece un suo importante alleato. Il godimento è infatti il centro della nuova economia delle interfacce, dal momento che queste ultime sono riuscite a integrarlo perfettamente nei propri sistemi. Nel contesto economico globale il godimento può essere produttivo o improduttivo[4] e nonostante il primo venga considerato funzionale alle strutture sociali e il secondo insensato, sono in realtà complementari poiché «nell’insieme mostrano gli effetti sociali del godimento e concorrono alla costruzione della moderna soggettività capitalistica»[5]. La dimensione “imprendicaria” risente molto del tema del piacere, poiché la retorica stessa della Silicon Valley presenta il piacere come uno “stato di natura”, instillando nell’uomo la convinzione che il godimento sia portatore di libertà e autonomia in quanto sintomo della soggettività: «più godiamo, più diventiamo soggetti capitalistici individualistici»[6].

Così le interfacce, attraverso precise scelte grafiche e interazioni, si fanno più soft per adattarsi al nuovo ecosistema domestico, più giocose per catalizzare il godimento e più confortevoli per tranquillizzare l’utente. La produttività diventa quindi una vera e propria forma estetica indirizzata alla creazione di una finta forma di autocontrollo. Rispondendo alla necessità dell’uomo di astrarre e ordinare il caos [7], questa estetica si dispiega sotto forma di grafici, task, elenchi, notifiche, indici, percentuali e icone, restituendo all’utente un’immagine chiara e comprensibile del proprio operato. Gli algoritmi gestiscono per noi gli aspetti caotici del lavoro configurandosi non più come semplici assistenti ma come veri e propri datori di lavoro invisibili, che controllano lo spazio dell’azione. Le interfacce alimentano così l’illusione che il lavoro possa essere sempre produttivo e ordinato, grazie a un’ambiguità intenzionale di fondo che pervade l’intero processo e nutre l’impressione che queste siano più reattive ed efficienti di quanto non lo siano in realtà.

Ma in che modo l’illusione di controllo, il godimento e la produttività convergono nelle interfacce? Nel contesto del software a scopo gestionale ritroviamo molti di questi temi a livello estetico, narrativo e metaforico, assistendo a un fenomeno per cui la gestione del proprio spazio, del proprio tempo e delle proprie risorse lavorative sfrutta la dimensione del godimento per rendersi più pervasiva. Ogni interazione effettuata tramite un’app o un software per la gestione della produzione lavorativa è connessa a un piccolo godimento intimo che diventa a sua volta produzione in tempo reale (è satisfying mettere il check a una task). Allo stesso tempo il godimento prodotto dalla distrazione gioca un ruolo fondamentale nel sublimare l’alienazione lavorativa, impedendo un giudizio critico verso le proprie condizioni. Anche laddove si cerchi riparo nell’ozio, si finisce per alimentare una realtà illusoria, ordinata e coerente, alla quale dobbiamo prima o poi tornare a far riferimento, lavorando: «distrarci durante l’attività lavorativa serve a conferire senso, valore, importanza al lavoro stesso»[8] (il T-Rex di Chrome ne è un perfetto esempio). È per questo che nei software per il project management si fa sempre più presente una componente di gioco. È quella che ormai è nota come gamification, un processo per cui i prodotti che danno forma a interi settori economici (la sharing economy) assumono forme e regole originarie del mondo dei videogiochi. L’interfaccia diventa simile a un gioco nelle forme e nell’interazione, andando a sovrapporsi al godimento improduttivo. Se lavorare è sempre più simile a giocare, decade anche la distinzione tra momento d’ozio e momento di lavoro, a favore di un ibrido tra i due momenti che risulta estremamente pericoloso. La distinzione tra lavoro e gioco si erode a causa di due fenomeni paralleli: nei videogiochi compiamo azioni sempre più simili a veri e propri lavori e le interfacce con cui lavoriamo somigliano sempre di più a videogiochi. Servizi come Uber, ad esempio, o Deliveroo, coinvolgono l’utente in dinamiche ludiche, astraendo al tempo stesso qualsiasi operazione scomoda come quella del pagamento, eliminando la complessità e le interazioni non necessarie. La costruzione di questo strato dell’interfaccia su molte aree della cultura e della società funziona e si diffonde grazie al ruolo di arbitro della fiducia ricoperto dall’interfaccia stessa. Nel contesto del progetto possiamo individuare dinamiche simili, tra cui quella dell’intimità. Quando utilizziamo un software per il project management come Monday, Basecamp, Trello o Asana stiamo affidando una parte del nostro lavoro a un servizio, riponendo la nostra fiducia in esso e nella sua capacità di mediare le nostre interazioni sociali. La logica è simile a quella delle app di food delivery: l’imbarazzo di farsi consegnare un pranzo viene lenito dall’interfaccia che ha mediato questa interazione. Allo stesso modo assegnare task, spostare le deadline e mettere pressione a un collega sono tutte azioni che vengono delegate all’interfaccia, capace di semplificare i processi e astrarli. L’interfaccia presiede così sia alla gestione di noi stessi che all’interazione lavorativa con i nostri collaboratori, rendendo il lavoro in ultima analisi più godibile. Il godimento, reso possibile dalla gamification imperante di questi sistemi, riesce a spingere il lavoratore a dare il massimo tramite un sistema di ricompense e micro-scariche di dopamina. Tra metriche, misurazioni e punteggi, gli strumenti gamificati incentivano anche la competizione, creano distacco dalle attività svolte e costringono a focalizzarsi sul breve termine. Quando si completa un’attività assegnata su Asana, la casella brilla velocemente gratificando l’utente mentre un piccolo unicorno colorato attraversa lo schermo lungo una diagonale. Asana permette inoltre di controllare in tempo reale quanto velocemente il team si sta avvicinando al prossimo obiettivo di progetto; alcuni indicatori verdi, gialli o rossi segnalano se il progetto sta procedendo rispettando il programma e le deadline definite; i lavoratori sono valutati in tempo reale in base alla loro produttività e quantificati in grafici e punteggi. L’intero flusso lavorativo, dal lavoratore autonomo alla grande azienda, è rappresentato come il tabellone dei risultati di un videogioco che si aggiorna in tempo reale. L’unicorno arcobaleno di Asana ci mostra un ulteriore aspetto fondamentale del processo di gamification, che per certi versi riprende il tema del Softwear di cui si è parlato in precedenza: la tendenza delle interfacce a divenire sempre più cute. Questo termine si riferisce al gusto estetico delle interfacce contemporanee, fatto di totale candore, pulizia, forme arrotondate e soluzioni grafiche e illustrazioni essenzialmente infantili[9]. Non si tratta soltanto di una semplice moda passeggera, ma di una reazione a un’era dell’ansia [10]. Se un tempo la cuteness era vista dal mondo del design come frivola e poco seria, oggi è diventato un tema ricorrente nel lavoro di studi indipendenti e nel circuito internazionale non solo dell’arredamento, ma di tutte le aree del design, tra cui anche quello grafico e delle interfacce. La sua crescente popolarità deriva da alcune leggi della biologia evolutiva per le quali i tratti tipici della morfologia infantile (occhi e testa grandi, gambe e braccia corte, rotondità) generano una risposta emotiva che porta a prendersi cura dell’oggetto in questione. Allo stesso modo, sedie, sgabelli e lampade da tavolo vengono progettati tenendo a mente queste regole mentali che portano al desiderio di volerli abbracciare, stringere o giocare con loro. Uno studio del 2011[11] ha esplorato come l’astrazione di queste morfologie nel product design possa portare a un maggior coinvolgimento da parte degli utenti, aumentando in ultima analisi la user satisfaction. Le interfacce non sono escluse da questa metamorfosi, come dimostra l’imponente rebranding di Google, nel quale quattro cerchi colorati si muovono giocosamente costruendo forme e icone facendo perdere anche al logo le spigolosità di un tempo, o l’altrettanto importante restyling di Facebook che, come molte altre realtà, ha adottato il linguaggio dell’illustrazione cartoonesca per comunicare. Dropbox ha rinnovato la propria identità visiva nel 2017 proponendo colori vivaci e giocosi, illustrazioni con creature buffe e animali composti da una molteplicità di pattern colorati e tratti a matita; Toggl, uno strumento per controllare il monte ore dei propri progetti, così come in passato possedeva un’identità basata sulle azioni bizzarre di mostriciattoli colorati assemblati con della pasta modellabile, oggi propone un’identità che riprende quel concept avvicinandosi più al mondo dell’oddly satisfying. Anche Google Home o Alexa sono oggetti tondeggianti, dotati di superfici morbide e abbastanza grandi e pesanti da essere presi in braccio come cuccioli. I pattern mentali biologici che portano a reagire in un certo modo all’esposizione alle forme infantili sono gli stessi che rendono le interfacce attraenti ai nostri occhi, consentendoci di godere nel prenderci cura di esse (come se fossero bambini in cerca di attenzioni). I software, le app, i web tools, da Asana a Gmail, da Dropbox a LinkedIn, diventano così dei controllori algoritmici estremamente elaborati avvolti da involucri amichevoli, che si presentano come assistenti intelligenti perennemente attivi.

Estratto da Less Exciting Times. Il designer come estensione del software. Tesi di laurea magistrale di Alessandro De Vecchi in Design della comunicazione, A.A. 2019/2020 – Politecnico di Milano. Relatore: Francesco Ermanno Guida.

PROGETTO GRAFICO n°

Novembre / 2020

Vittorio Linfante Politecnico di Milano – Scuola del Design – Design della Moda

Moda e comunicazione visiva – in tutte le loro espressioni: dall’arte, all’illustrazione, alla pubblicità – sono di solito accomunate da un rapporto spesso solo strumentale. La comunicazione visiva, a volte, sembra esaurire la propria funzione di strumento per la rappresentare di un’idea o di un progetto, o come mezzo per creare tutta quella serie di materiali necessari per dare visibilità a un brand, alle collezioni o semplicemente a un singolo prodotto.

I due ambiti hanno in realtà molti più punti di contatto che – trascendendo il mero rapporto strumentale –, definiscono un Common Ground progettuale complesso che attraverso l’ibridazione dei linguaggi, realizza una serie di artefatti, non facilmente ascrivibili a una o all’altra sfera della creatività. Se, come afferma Dorfles, per la moda è di somma importanza il fattore informativo e la novità del messaggio da trasmettere, va comunque sottolineato che essa stessa è linguaggio e portatrice di significato.

Fattori informativi e comunicativi sono comuni alle due discipline che, soprattutto nel contemporaneo, si sono sempre più amalgamante tra di loro dando forma a un magma creativo nel quale non è sempre possibile riconoscere chiaramente il confine tra il processo creativo della moda e quello della comunicazione visiva.

Da questo punto di vista, la grafica rappresenta non più solo un elemento che permette di creare “confezioni” per prodotti di serie, ma un vero e proprio strumento progettuale capace di definire il processo creativo, assumendo così un nuovo valore per il Fashion System.

Moda e comunicazione visiva interagiscono, si fondono e spesso si scontrano all’interno di un discorso che, affamato di novità, realizza la propria ragion d’essere, attraverso vari stadi di profanazione dello status quo della storia e di norme consolidate, dell’artefatto comunicativo come di quello vestimentario: profanazione che assume diverse forme e significati, quale la rottura delle regole prestabilite, che se da un lato può definire nuove e inattese soluzioni progettuali, che fanno dell’errore (volontario) cifra stilistica e poetica; dall’altro può generare esiti formali involontariamente scorretti e, per questo, difficilmente giustificabili. Possiamo avere una profanazione come processo creativo che, come nel caso di Miuccia Prada, spezza la sacralità delle regole prestabilite liberando e distogliendo “l’umanità dalla sfera del sacro, ma senza semplicemente abolirlo”.

“Il percorso di emancipazione della moda da una fase premoderna a una moderna può essere raccontato a partire da una parola chiave che è l’etichetta”, termine che prendendo le mosse dall’habitus, quale sistema di regole tacite che condizionavano le modalità di utilizzo dei capi, diventa elemento identificativo, non tanto dello status sociale di chi indossa un determinato capo, ma dell’identità di chi quel capo lo ha pensato. Rose Bertin, la sarta personale della regina Maria Antonietta, fu tra le prime a comprendere l’importanza della comunicazione visiva come elemento di promozione, applicando etichette tessili all’interno degli abiti che realizzava per Maria Antonietta e per la nobiltà della corte di Luigi XVI. La comunicazione inizia a divenire elemento imprescindibile per il commercio tanto che nel suo negozio in rue de Saint-Honoré “Au Grand Mogol”, Rose Bertin esponeva un’insegna su cui campeggiava la scritta Marchande de mode de la reine a caratteri cubitali affinché si vedesse da lontano e giocasse il suo ruolo pubblicitario.

Tipografia, segni e simboli diventano sempre più importanti per l’identificazione, non solo di corporazioni, ma di singole realtà che attraverso il proprio stile si affermano negli anni all’interno del sempre più ampio mercato della moda. L’identità di un creatore di moda non passa più solo attraverso colori, stoffe e forme ma anche attraverso un segno distintivo che ne definisce l’identità visiva.

Anche se il design dei primi marchi, alcuni dei quali ancora oggi iconici e famosi, come la doppia C di Chanel o il monogramma di Luis Vuitton, è nato dall’intuizione e dalla matita dei fondatori delle maison, è già dai primi decenni del secolo scorso che il rapporto tra moda e comunicazione visiva si è andato sempre più istituzionalizzando. Un rapporto che vede sodalizi tra fashion designer, illustratori, artisti e graphic designer. Figure, quest’ultime, che diventano fondamentali per la realizzazione non solo di un marchio ma dell’intera identità di una maison, un rapporto che ha consacrato allo stesso tempo fashion designer e progettisti grafici: come Paul Iribe che nel 1923, stilizzando una foto di Jeanne Lanvin e di sua figlia Marguerite che si stringono le mani, crea l’identità di Lanvin; oppure John McConnel che nel 1963 riprende sinuose forme liberty per il logo di Biba, la boutique londinese della sua amica Barbara Hulanicki; o come, in anni più recenti, Italo Lupi, che nel 1981 – quasi dimenticando le buone regole della grafica dell’epoca – realizza per Fiorucci un logo che, in linea con lo spirito di Elio Fiorucci, dissacra e si prende gioco dell’arte e delle regole della bella tipografia.

Lungo è l’elenco delle collaborazioni tra fashion e graphic designer che, a partire dalla metà del secolo scorso, hanno contribuito a definire allo stesso tempo la storia della moda e quella della grafica moderna e contemporanea, come: Angelo Giuseppe [AG] Fronzoni e Moreschi, Massimo Vignelli e Benetton, Italo Lupi e Miu Miu, solo per citarne alcuni.

In tempi più recenti si è poi assistito a una serie di interventi sull’identità di marchi storici nati spesso dalla frenesia di rincorrere linguaggi ritenuti più contemporanei o assecondare l’ego dei diversi direttori creativi. Interventi questi che spesso hanno azzerato la storia del brand, profanando identità visive definite non solo da una font e da un simbolo, ma da un heritage costruito attraverso prodotti, spazi, tessuti e forme. È così che a partire dagli inizi del nuovo millennio si realizzano diverse sinergie creative che definiscono nuove identità visive: il logo di Balmain, sotto la direzione artistica di Olivier Rousteing viene ridisegnato dal duo francese Florent Faurie e Daniel Ribeiro dello studio adulte adulte, mentre il tedesco Bureau Borsche contribuisce a rendere più contemporanei marchi come Balenciaga e Rimowa; fino ad arrivare alla collaborazione tra Riccardo Tisci (alla guida di Burberry dal 2018) e Peter Saville per la creazione della nuova identità e del monogramma della casa di moda inglese: TB, un omaggio al fondatore Thomas Burberry ma che strizza l’occhio anche al binomio Tisci-Burberry. Se in questi casi appena citati – seppur criticati da alcune parti per un’eccessiva omologazione di stili e tipografia – la correttezza del progetto grafico è capace di costruire un rinnovato percorso identitario di marchi storici, in altri casi l’ego dei direttori creativi ha dato vita a vere e proprie profanazioni grafiche: una per tutte la decisione presa da Hedi Slimane – salito nel 2012 alla direzione creativa di Yves Saint Laurent –  di eliminare la Y di Yves, sia dal monogramma sia dal logotipo, intervenendo così sulle proporzioni e sulle geometri del disegno realizzato nel 1961 da Cassandre, profanando allo stesso tempo la memoria del fondatore della maison e del grafico-illustratore francese, oltre a rompere il perfetto equilibrio delle geometrie del marchio originale.

Proporzioni e regole ignorate che tuttavia, in altre situazioni, possono diventare punto distintivo e di forza per l’identità visiva, ma non solo. L’identità decostruita, che ignora (volutamente) le regole della buona grafica, del buon vestire e del buon comunicare per dar vita a un concetto artistico, prima che a un brand, quello di Martin Margiela. Il designer belga formatosi presso la Koninklijke Academie voor Schone Kunsten di Anversa, mette in campo alcune strategie che potrebbero essere considerate come le “regole per non diventar famosi”: non si mostra mai in pubblico, non rilascia interviste, realizza collezioni che sono difficilmente vendibili (anche perché spesso risultato di processi di riutilizzo di prodotti o materiali di scarto) e, inoltre, non realizza un logo vero e proprio e un’identità visiva univoca. Margiela mette in atto una vera e propria profanazione di ogni regola di marketing, di produzione e di comunicazione, rompe lo status quo. Per il designer belga dissacrare diventa gioco: “come ludus, o gioco di azione […] lascia cadere il mito e conserva il rito”. Il processo creativo è più importante del risultato finale. L’intera identità è vissuta come una performance: il logo non esiste, ma il lettering si evolve e varia con il variare delle collezioni e delle stagioni (fig. 1); l’etichetta è muta, ma la si riconosce da quattro cuciture che ne denunciano la presenza all’esterno dei capi (fig. 2); le insegne dei negozi, quando presenti, sono griglie numeriche sconosciute ai più, griglie numeriche che rappresentano un codice da decifrare che si riferisce alle diverse linee del marchio. Unica costante di tutto questo “non-progetto” di comunicazione è, coerentemente con la non presenza del designer, l’assenza del colore: nel mondo Margiela, tutto è annullato dal bianco. Infinite sfumature di bianco annullano l’identità degli objets trouvés – usati per arredare i negozi –, dei capi di abbigliamento e degli accessori. Lettering bianchi vengono serigrafati su candide T-shirt. Serigrafie continue che passano dall’esterno all’interno della T-shirt, sublimando un processo di stampa errato. La profanazione diventa poetica, estetica e linguaggio che trasporta elementi e processi grafici e di stampa sul prodotto moda, realizzando un continuum tra la bidimensionalità della grafica e la tridimensionalità del corpo vestito, reso anche attraverso fotocopie di capi di abbigliamento (fig. 3) stampate su abiti dalle geometrie pure usati come campo grafico.

(Fig. 1) (Fig. 2) (Fig. 3)

Nel progetto contemporaneo il confine tra comunicazione e moda si fa sempre più labile. La moda è pensata per guardare ed essere guardata. I vestiti sono un segno, o un insieme di segni: l’abaco formale della moda rimanda all’alfabeto o alla bidimensionalità della geometria piana, si parla infatti di linea S, linea A, linea Y, linea I, linea H e linea T, o di linea a trapezio o a uovo, elementi grafici che identificano, quindi, precise vestibilità e volumi che si sviluppano nello spazio.

Fashion e graphic designer sono accomunati dall’abilità di lettura del contemporaneo e dalla capacità di leggere, interpretare e appropriarsi di codici visivi afferenti a mondi e culture molto diverse tra loro: un metodo e un processo creativo (fortemente caratterizzato da una componente visiva) che hanno definito negli anni molteplici sinergie, non solo professionali ma anche, e soprattutto, di contaminazione e ibridazione dei linguaggi.

Colori, segni e simboli diventano elementi progettuali che accomunano entrambi i mondi. Elementi che definiscono e generano significati che prendono forma su carta o superfici digitali, così come su tessuti o su corpi vestiti.

Con le avanguardie artistiche di inizio secolo scorso, anche progettisti lontani dalla moda si approcciano a questo ambito, definendo nuovi stilemi dell’abbigliamento, nei quali l’abito diventa non solo necessità vestimentaria, ma campo visivo da utilizzare come base per una nuova forma d’arte che dalla bidimensionalità della tela abbraccia la tridimensionalità del corpo. Prendono così forma così la T della Tuta di Thayaht, le giustapposizioni di forme geometriche e di campi cromatici con i quali Giacomo Balla realizza abiti e gilet.

Il decoro pittorico è reso elemento generativo dalle creazioni di Sonia Delanuay, che affermava  che la costruzione e il taglio dell’abito andavano concepiti contemporaneamente alla decorazione. L’ornamento quindi non più delitto, ma fuso nella forma stessa.

Dall’altro lato si assiste, negli stessi anni, al lavoro di couturiers che riconoscono il potere della grafica, delle parole e dei simboli come elementi fondamentali della loro poetica che prende forma dal dialogo con le avanguardie artistiche e i suoi maggiori esponenti. I tratti leggeri di Jean Cocteau nelle mani di Elsa Schiaparelli creano tensioni lineari su abiti e tailleur. La couturier parigina, di origini italiane, è tra le prime a trattare il tessuto come pagina bianca. I punti della maglieria generano linee con le quali disegna trompe-l’œil che generano colli, fiocchi e foulard. Si rompono così gli schemi tradizionali del processo progettuale di moda che fino a quel momento era definito dalla tridimensionalità (del corpo umano) e dalla matericità (dei tessuti).

Il profano prende qui la forma di “jocus, o gioco di parole […] che cancella il rito e lascia sopravvivere il mito”. Un processo creativo e un approccio progettuale ludico che definiscono “una nuova dimensione dell’uso” degli elementi propri della grafica.

Vivienne Westwood profana la storia dell’arte stampando su abiti, T-shirt e costumi da bagno riproduzioni di dipinti della tradizione settecentesca (fig. 4), e rompe la tradizione tipografica secondo il più consolidato approccio punk, che lei stessa ha contribuito a creare.

(Fig. 4)

Franco Moschino gioca con la tipografia, con l’errore sintattico, con le proporzioni e le spaziature delle lettere. I sui tubini essenziali usano in maniera irriverente motti e frasi celebri, scritte con il più elegante dei Bodoni. To be or not to be, that’s fashion, o It’s all so simple, o grandi ? e !, rigorosamente in bianco e nero, sono stampati su t-shirt e tubini. La classe non è acqua decora costumi da bagno. Così come usa i motti altrui, Moschino si appropria anche di archetipi della moda (il tailleur Chanel e il chiodo in pelle), di personaggi iconici reali o di fantasia (la regina Elisabetta II e Olivia Oyl, storica fidanzata di Braccio di Ferro) o di simboli grafici (il cuore, lo smile, il simbolo della pace) non per svuotarli del loro significato ma per amplificarne il senso. Simboli che diventano etichette delle diverse linee, elementi di decoro e forme di prodotto. Il gioco di Moschino prosegue rompendo le regole tipografiche e utilizzando il proprio logo anche come elemento metallico su cinture: le lettere del logo, in metallo dorato, sono lasciate libere di muoversi lungo la striscia di pelle, rompendo ogni buon uso delle spaziature e leggibilità del logo (fig. 5).

(Fig. 5)

La tipografica ha affascinato molti altri designer: lettering bastoni diventano dichiarazioni politiche sulle T-shirt stampate di Katharine Hamnett o, più recentemente, Virgil Abloh per le collezioni per il suo marchio Off-White, così come per le innumerevoli collaborazioni con marchi tra loro diversissimi – come Nike, Ikea e Vitra – contrassegna i prodotti con pleonastiche indicazioni: didascalie dell’oggetto o del capo di abbigliamento sono stampati come decoro sull’oggetti stesso (fig. 6).

(Fig. 6)

Il lettering rompe non solo la superficie ma tutto il volume dell’abito nelle collezioni di Victor & Rolf. Per la collezione autunno/inverno 2008-2009 i due designer belgi realizzano una collezione nella quali grandi lettere tridimensionali profanano la silhouette deformando le proporzioni dell’abito (fig. 7), e nella collezione haute couture primavera/estate 2019 le modelle sono letteralmente inserite in abiti scultura, enormi coni in tulle dai colori tenui che riportano stampe pop con assertive scritte come NO, I’M NOT SHY I JUST DON’T LIKE YOU o F* THIS I’M GOING TO PARIS.

(Fig. 7)

Gli abiti diventano così elementi grafici che profanano i corpi come nelle collezioni autunno/inverno 2012-2013 di Walter Van Beirendonck (fig. 8), autunno/inverno 2012-2013 di Comme Des Garçons (fig. 9) e autunno/inverno 2015-2016 di Anrealage (fig. 10) nelle quali il contrasto figura sfondo genera visioni falsate, profanando le proporzioni del corpo umano; o come nelle collezioni di Edda Gimnes (fig. 11) nella quali l’abito si annulla e non segue le proporzioni e le forme del corpo, portando lo schizzo progettuale nel mondo reale. Il processo creativo diventa così prodotto attraverso il fuori scala.

(Fig. 8) (Fig. 9) (Fig. 10) (Fig. 11)

Prende così forma quella che potremmo definire una vera e propria oscillazione di significati, tra comunicazione e moda, intesi non come due elementi separati ma come un unico sistema comunicativo.

 

(Fig. 1) Griglia di Martin Margiela con la legenda relativa al significato dei numeri
Courtesy Maison Martin Margiela

(Fig. 2) Cuciture dell’etichetta visibili all’esterno dei capi Margiela, a indicarne la presenza interna
Courtesy Maison Martin Margiela

(Fig. 3) Maison Martin Margiela, sfilata della collezione primavera/estate 2009
© Karl Prouse/Catwalking/Getty Images

(Fig. 4) Vivienne Westwood, sfilata della collezione primavera/estate 1994
© Ward/Mirrorpix/Getty Images

(Fig. 5) Moschino Belt, iconico prodotto del marchio milanese che dissacra il rigore dell’identità visiva del lettering del logo
Courtesy Moschino

(Fig. 6) Off White, Plastic Bag, primavera/estate 2018
© Christian Vierig/Getty Images

(Fig. 7) Viktor & Rolf, sfilata della collezione autunno/inverno 2008-2009
© Pierre Verdy/AFP via Getty Images

(Fig. 8) Walter Van Beirendonck, sfilata della collezione autunno/inverno 2012-2013
© Victor Virgile/Gamma-Rapho via Getty Images

(Fig. 9) Comme Des Garçons, sfilata della collezione autunno/inverno 2012-2013
© Chris Moore/Catwalking/Getty Images

(Fig. 10) Anrealage, sfilata della collezione autunno/inverno 2015-2016
© Richard Bord/Getty Images

(Fig. 11) Edda Gimnes, sfilata della collezione autunno/inverno 2016-2017
© Eamonn M. McCormack/Getty Images

PROGETTO GRAFICO n°

Novembre / 2020

Vittorio Linfante Politecnico di Milano – Scuola del Design – Design della Moda

Moda e comunicazione visiva – in tutte le loro espressioni: dall’arte, all’illustrazione, alla pubblicità – sono di solito accomunate da un rapporto spesso solo strumentale. La comunicazione visiva, a volte, sembra esaurire la propria funzione di strumento per la rappresentare di un’idea o di un progetto, o come mezzo per creare tutta quella serie di materiali necessari per dare visibilità a un brand, alle collezioni o semplicemente a un singolo prodotto.

I due ambiti hanno in realtà molti più punti di contatto che – trascendendo il mero rapporto strumentale –, definiscono un Common Ground progettuale complesso che attraverso l’ibridazione dei linguaggi, realizza una serie di artefatti, non facilmente ascrivibili a una o all’altra sfera della creatività. Se, come afferma Dorfles, per la moda è di somma importanza il fattore informativo e la novità del messaggio da trasmettere, va comunque sottolineato che essa stessa è linguaggio e portatrice di significato.

Fattori informativi e comunicativi sono comuni alle due discipline che, soprattutto nel contemporaneo, si sono sempre più amalgamante tra di loro dando forma a un magma creativo nel quale non è sempre possibile riconoscere chiaramente il confine tra il processo creativo della moda e quello della comunicazione visiva.

Da questo punto di vista, la grafica rappresenta non più solo un elemento che permette di creare “confezioni” per prodotti di serie, ma un vero e proprio strumento progettuale capace di definire il processo creativo, assumendo così un nuovo valore per il Fashion System.

Moda e comunicazione visiva interagiscono, si fondono e spesso si scontrano all’interno di un discorso che, affamato di novità, realizza la propria ragion d’essere, attraverso vari stadi di profanazione dello status quo della storia e di norme consolidate, dell’artefatto comunicativo come di quello vestimentario: profanazione che assume diverse forme e significati, quale la rottura delle regole prestabilite, che se da un lato può definire nuove e inattese soluzioni progettuali, che fanno dell’errore (volontario) cifra stilistica e poetica; dall’altro può generare esiti formali involontariamente scorretti e, per questo, difficilmente giustificabili. Possiamo avere una profanazione come processo creativo che, come nel caso di Miuccia Prada, spezza la sacralità delle regole prestabilite liberando e distogliendo “l’umanità dalla sfera del sacro, ma senza semplicemente abolirlo”.

“Il percorso di emancipazione della moda da una fase premoderna a una moderna può essere raccontato a partire da una parola chiave che è l’etichetta”, termine che prendendo le mosse dall’habitus, quale sistema di regole tacite che condizionavano le modalità di utilizzo dei capi, diventa elemento identificativo, non tanto dello status sociale di chi indossa un determinato capo, ma dell’identità di chi quel capo lo ha pensato. Rose Bertin, la sarta personale della regina Maria Antonietta, fu tra le prime a comprendere l’importanza della comunicazione visiva come elemento di promozione, applicando etichette tessili all’interno degli abiti che realizzava per Maria Antonietta e per la nobiltà della corte di Luigi XVI. La comunicazione inizia a divenire elemento imprescindibile per il commercio tanto che nel suo negozio in rue de Saint-Honoré “Au Grand Mogol”, Rose Bertin esponeva un’insegna su cui campeggiava la scritta Marchande de mode de la reine a caratteri cubitali affinché si vedesse da lontano e giocasse il suo ruolo pubblicitario.

Tipografia, segni e simboli diventano sempre più importanti per l’identificazione, non solo di corporazioni, ma di singole realtà che attraverso il proprio stile si affermano negli anni all’interno del sempre più ampio mercato della moda. L’identità di un creatore di moda non passa più solo attraverso colori, stoffe e forme ma anche attraverso un segno distintivo che ne definisce l’identità visiva.

Anche se il design dei primi marchi, alcuni dei quali ancora oggi iconici e famosi, come la doppia C di Chanel o il monogramma di Luis Vuitton, è nato dall’intuizione e dalla matita dei fondatori delle maison, è già dai primi decenni del secolo scorso che il rapporto tra moda e comunicazione visiva si è andato sempre più istituzionalizzando. Un rapporto che vede sodalizi tra fashion designer, illustratori, artisti e graphic designer. Figure, quest’ultime, che diventano fondamentali per la realizzazione non solo di un marchio ma dell’intera identità di una maison, un rapporto che ha consacrato allo stesso tempo fashion designer e progettisti grafici: come Paul Iribe che nel 1923, stilizzando una foto di Jeanne Lanvin e di sua figlia Marguerite che si stringono le mani, crea l’identità di Lanvin; oppure John McConnel che nel 1963 riprende sinuose forme liberty per il logo di Biba, la boutique londinese della sua amica Barbara Hulanicki; o come, in anni più recenti, Italo Lupi, che nel 1981 – quasi dimenticando le buone regole della grafica dell’epoca – realizza per Fiorucci un logo che, in linea con lo spirito di Elio Fiorucci, dissacra e si prende gioco dell’arte e delle regole della bella tipografia.

Lungo è l’elenco delle collaborazioni tra fashion e graphic designer che, a partire dalla metà del secolo scorso, hanno contribuito a definire allo stesso tempo la storia della moda e quella della grafica moderna e contemporanea, come: Angelo Giuseppe [AG] Fronzoni e Moreschi, Massimo Vignelli e Benetton, Italo Lupi e Miu Miu, solo per citarne alcuni.

In tempi più recenti si è poi assistito a una serie di interventi sull’identità di marchi storici nati spesso dalla frenesia di rincorrere linguaggi ritenuti più contemporanei o assecondare l’ego dei diversi direttori creativi. Interventi questi che spesso hanno azzerato la storia del brand, profanando identità visive definite non solo da una font e da un simbolo, ma da un heritage costruito attraverso prodotti, spazi, tessuti e forme. È così che a partire dagli inizi del nuovo millennio si realizzano diverse sinergie creative che definiscono nuove identità visive: il logo di Balmain, sotto la direzione artistica di Olivier Rousteing viene ridisegnato dal duo francese Florent Faurie e Daniel Ribeiro dello studio adulte adulte, mentre il tedesco Bureau Borsche contribuisce a rendere più contemporanei marchi come Balenciaga e Rimowa; fino ad arrivare alla collaborazione tra Riccardo Tisci (alla guida di Burberry dal 2018) e Peter Saville per la creazione della nuova identità e del monogramma della casa di moda inglese: TB, un omaggio al fondatore Thomas Burberry ma che strizza l’occhio anche al binomio Tisci-Burberry. Se in questi casi appena citati – seppur criticati da alcune parti per un’eccessiva omologazione di stili e tipografia – la correttezza del progetto grafico è capace di costruire un rinnovato percorso identitario di marchi storici, in altri casi l’ego dei direttori creativi ha dato vita a vere e proprie profanazioni grafiche: una per tutte la decisione presa da Hedi Slimane – salito nel 2012 alla direzione creativa di Yves Saint Laurent –  di eliminare la Y di Yves, sia dal monogramma sia dal logotipo, intervenendo così sulle proporzioni e sulle geometri del disegno realizzato nel 1961 da Cassandre, profanando allo stesso tempo la memoria del fondatore della maison e del grafico-illustratore francese, oltre a rompere il perfetto equilibrio delle geometrie del marchio originale.

Proporzioni e regole ignorate che tuttavia, in altre situazioni, possono diventare punto distintivo e di forza per l’identità visiva, ma non solo. L’identità decostruita, che ignora (volutamente) le regole della buona grafica, del buon vestire e del buon comunicare per dar vita a un concetto artistico, prima che a un brand, quello di Martin Margiela. Il designer belga formatosi presso la Koninklijke Academie voor Schone Kunsten di Anversa, mette in campo alcune strategie che potrebbero essere considerate come le “regole per non diventar famosi”: non si mostra mai in pubblico, non rilascia interviste, realizza collezioni che sono difficilmente vendibili (anche perché spesso risultato di processi di riutilizzo di prodotti o materiali di scarto) e, inoltre, non realizza un logo vero e proprio e un’identità visiva univoca. Margiela mette in atto una vera e propria profanazione di ogni regola di marketing, di produzione e di comunicazione, rompe lo status quo. Per il designer belga dissacrare diventa gioco: “come ludus, o gioco di azione […] lascia cadere il mito e conserva il rito”. Il processo creativo è più importante del risultato finale. L’intera identità è vissuta come una performance: il logo non esiste, ma il lettering si evolve e varia con il variare delle collezioni e delle stagioni (fig. 1); l’etichetta è muta, ma la si riconosce da quattro cuciture che ne denunciano la presenza all’esterno dei capi (fig. 2); le insegne dei negozi, quando presenti, sono griglie numeriche sconosciute ai più, griglie numeriche che rappresentano un codice da decifrare che si riferisce alle diverse linee del marchio. Unica costante di tutto questo “non-progetto” di comunicazione è, coerentemente con la non presenza del designer, l’assenza del colore: nel mondo Margiela, tutto è annullato dal bianco. Infinite sfumature di bianco annullano l’identità degli objets trouvés – usati per arredare i negozi –, dei capi di abbigliamento e degli accessori. Lettering bianchi vengono serigrafati su candide T-shirt. Serigrafie continue che passano dall’esterno all’interno della T-shirt, sublimando un processo di stampa errato. La profanazione diventa poetica, estetica e linguaggio che trasporta elementi e processi grafici e di stampa sul prodotto moda, realizzando un continuum tra la bidimensionalità della grafica e la tridimensionalità del corpo vestito, reso anche attraverso fotocopie di capi di abbigliamento (fig. 3) stampate su abiti dalle geometrie pure usati come campo grafico.

(Fig. 1) (Fig. 2) (Fig. 3)

Nel progetto contemporaneo il confine tra comunicazione e moda si fa sempre più labile. La moda è pensata per guardare ed essere guardata. I vestiti sono un segno, o un insieme di segni: l’abaco formale della moda rimanda all’alfabeto o alla bidimensionalità della geometria piana, si parla infatti di linea S, linea A, linea Y, linea I, linea H e linea T, o di linea a trapezio o a uovo, elementi grafici che identificano, quindi, precise vestibilità e volumi che si sviluppano nello spazio.

Fashion e graphic designer sono accomunati dall’abilità di lettura del contemporaneo e dalla capacità di leggere, interpretare e appropriarsi di codici visivi afferenti a mondi e culture molto diverse tra loro: un metodo e un processo creativo (fortemente caratterizzato da una componente visiva) che hanno definito negli anni molteplici sinergie, non solo professionali ma anche, e soprattutto, di contaminazione e ibridazione dei linguaggi.

Colori, segni e simboli diventano elementi progettuali che accomunano entrambi i mondi. Elementi che definiscono e generano significati che prendono forma su carta o superfici digitali, così come su tessuti o su corpi vestiti.

Con le avanguardie artistiche di inizio secolo scorso, anche progettisti lontani dalla moda si approcciano a questo ambito, definendo nuovi stilemi dell’abbigliamento, nei quali l’abito diventa non solo necessità vestimentaria, ma campo visivo da utilizzare come base per una nuova forma d’arte che dalla bidimensionalità della tela abbraccia la tridimensionalità del corpo. Prendono così forma così la T della Tuta di Thayaht, le giustapposizioni di forme geometriche e di campi cromatici con i quali Giacomo Balla realizza abiti e gilet.

Il decoro pittorico è reso elemento generativo dalle creazioni di Sonia Delanuay, che affermava  che la costruzione e il taglio dell’abito andavano concepiti contemporaneamente alla decorazione. L’ornamento quindi non più delitto, ma fuso nella forma stessa.

Dall’altro lato si assiste, negli stessi anni, al lavoro di couturiers che riconoscono il potere della grafica, delle parole e dei simboli come elementi fondamentali della loro poetica che prende forma dal dialogo con le avanguardie artistiche e i suoi maggiori esponenti. I tratti leggeri di Jean Cocteau nelle mani di Elsa Schiaparelli creano tensioni lineari su abiti e tailleur. La couturier parigina, di origini italiane, è tra le prime a trattare il tessuto come pagina bianca. I punti della maglieria generano linee con le quali disegna trompe-l’œil che generano colli, fiocchi e foulard. Si rompono così gli schemi tradizionali del processo progettuale di moda che fino a quel momento era definito dalla tridimensionalità (del corpo umano) e dalla matericità (dei tessuti).

Il profano prende qui la forma di “jocus, o gioco di parole […] che cancella il rito e lascia sopravvivere il mito”. Un processo creativo e un approccio progettuale ludico che definiscono “una nuova dimensione dell’uso” degli elementi propri della grafica.

Vivienne Westwood profana la storia dell’arte stampando su abiti, T-shirt e costumi da bagno riproduzioni di dipinti della tradizione settecentesca (fig. 4), e rompe la tradizione tipografica secondo il più consolidato approccio punk, che lei stessa ha contribuito a creare.

(Fig. 4)

Franco Moschino gioca con la tipografia, con l’errore sintattico, con le proporzioni e le spaziature delle lettere. I sui tubini essenziali usano in maniera irriverente motti e frasi celebri, scritte con il più elegante dei Bodoni. To be or not to be, that’s fashion, o It’s all so simple, o grandi ? e !, rigorosamente in bianco e nero, sono stampati su t-shirt e tubini. La classe non è acqua decora costumi da bagno. Così come usa i motti altrui, Moschino si appropria anche di archetipi della moda (il tailleur Chanel e il chiodo in pelle), di personaggi iconici reali o di fantasia (la regina Elisabetta II e Olivia Oyl, storica fidanzata di Braccio di Ferro) o di simboli grafici (il cuore, lo smile, il simbolo della pace) non per svuotarli del loro significato ma per amplificarne il senso. Simboli che diventano etichette delle diverse linee, elementi di decoro e forme di prodotto. Il gioco di Moschino prosegue rompendo le regole tipografiche e utilizzando il proprio logo anche come elemento metallico su cinture: le lettere del logo, in metallo dorato, sono lasciate libere di muoversi lungo la striscia di pelle, rompendo ogni buon uso delle spaziature e leggibilità del logo (fig. 5).

(Fig. 5)

La tipografica ha affascinato molti altri designer: lettering bastoni diventano dichiarazioni politiche sulle T-shirt stampate di Katharine Hamnett o, più recentemente, Virgil Abloh per le collezioni per il suo marchio Off-White, così come per le innumerevoli collaborazioni con marchi tra loro diversissimi – come Nike, Ikea e Vitra – contrassegna i prodotti con pleonastiche indicazioni: didascalie dell’oggetto o del capo di abbigliamento sono stampati come decoro sull’oggetti stesso (fig. 6).

(Fig. 6)

Il lettering rompe non solo la superficie ma tutto il volume dell’abito nelle collezioni di Victor & Rolf. Per la collezione autunno/inverno 2008-2009 i due designer belgi realizzano una collezione nella quali grandi lettere tridimensionali profanano la silhouette deformando le proporzioni dell’abito (fig. 7), e nella collezione haute couture primavera/estate 2019 le modelle sono letteralmente inserite in abiti scultura, enormi coni in tulle dai colori tenui che riportano stampe pop con assertive scritte come NO, I’M NOT SHY I JUST DON’T LIKE YOU o F* THIS I’M GOING TO PARIS.

(Fig. 7)

Gli abiti diventano così elementi grafici che profanano i corpi come nelle collezioni autunno/inverno 2012-2013 di Walter Van Beirendonck (fig. 8), autunno/inverno 2012-2013 di Comme Des Garçons (fig. 9) e autunno/inverno 2015-2016 di Anrealage (fig. 10) nelle quali il contrasto figura sfondo genera visioni falsate, profanando le proporzioni del corpo umano; o come nelle collezioni di Edda Gimnes (fig. 11) nella quali l’abito si annulla e non segue le proporzioni e le forme del corpo, portando lo schizzo progettuale nel mondo reale. Il processo creativo diventa così prodotto attraverso il fuori scala.

(Fig. 8) (Fig. 9) (Fig. 10) (Fig. 11)

Prende così forma quella che potremmo definire una vera e propria oscillazione di significati, tra comunicazione e moda, intesi non come due elementi separati ma come un unico sistema comunicativo.

 

(Fig. 1) Griglia di Martin Margiela con la legenda relativa al significato dei numeri
Courtesy Maison Martin Margiela

(Fig. 2) Cuciture dell’etichetta visibili all’esterno dei capi Margiela, a indicarne la presenza interna
Courtesy Maison Martin Margiela

(Fig. 3) Maison Martin Margiela, sfilata della collezione primavera/estate 2009
© Karl Prouse/Catwalking/Getty Images

(Fig. 4) Vivienne Westwood, sfilata della collezione primavera/estate 1994
© Ward/Mirrorpix/Getty Images

(Fig. 5) Moschino Belt, iconico prodotto del marchio milanese che dissacra il rigore dell’identità visiva del lettering del logo
Courtesy Moschino

(Fig. 6) Off White, Plastic Bag, primavera/estate 2018
© Christian Vierig/Getty Images

(Fig. 7) Viktor & Rolf, sfilata della collezione autunno/inverno 2008-2009
© Pierre Verdy/AFP via Getty Images

(Fig. 8) Walter Van Beirendonck, sfilata della collezione autunno/inverno 2012-2013
© Victor Virgile/Gamma-Rapho via Getty Images

(Fig. 9) Comme Des Garçons, sfilata della collezione autunno/inverno 2012-2013
© Chris Moore/Catwalking/Getty Images

(Fig. 10) Anrealage, sfilata della collezione autunno/inverno 2015-2016
© Richard Bord/Getty Images

(Fig. 11) Edda Gimnes, sfilata della collezione autunno/inverno 2016-2017
© Eamonn M. McCormack/Getty Images

PROGETTO GRAFICO n°

Aprile / 2020

L’intervista è stata inizialmente pubblicata su Progetto grafico 33 “Lavoro”.

Intervista-confronto sul precariato esistenziale
di Caterina Di Paolo a Gabriella Pascazio

Durante le fasi iniziali della preparazione di questo numero sul lavoro è emerso un tema che secondo tutta la redazione sarebbe stato interessante approfondire: le conseguenze psicologiche del lavoro creativo free-lance.

Inizialmente avevo immaginato un pezzo parodistico, per evitare al brano la pesantezza tipica che il tema dell’interiorità sembra portare con sé: volevo scrivere una sorta di psicopatologia quotidiana del lavoro creativo, piena di tic, coazioni a ripetere e complessi resi in modo umoristico. Mi ero quindi messa in contatto con la psicoterapeuta gestaltista Gabriella Pascazio, con l’idea di fare una chiacchierata semiseria sui temi che toccano noi liberi professionisti quotidianamente. Con una discreta sicurezza di me prevedevo già il brano e il suo tono, mettendomi in una posizione di controllo della cosa senza accorgermene.

La discussione è stata proficua, interessante e profonda; ma ha anche fatto venire alla luce alcuni temi con cui io per prima, da professionista, ho forse fatto troppo poco i conti a livello intimo. A qualche tempo da quella discussione, ora che sto tirando le fila di quell’incontro per ricavarne un brano, mi chiedo se il ricercare a tutti i costi l’ironia – come avevo deciso di fare inizialmente – non sia spesso un modo trito per allontanarci da qualcosa che ci spaventa; come già osservava ad esempio David Foster Wallace (che pure è un riferimento per molti di noi).

In un brano di Christian Raimo, Noi e Max Fisher contro il mondo, uscito su minima & moralia nello scorso gennaio, Raimo ricollega le posizioni di Fisher in Realismo capitalista a un’osservazione di Christian Marazzi: lo studioso ha sottolineato come oggi ci si narri in una sorta di bipolarismo – ansia maniacale e disforia – e che questo sia in qualche modo legato alle spinte della società in cui viviamo. Se tendiamo a narrare le nostre felicità come sempre perfette e altissime e le nostre tristezze come ansie e angosce insuperabili, non ci rendiamo conto che proprio queste esagerazioni ci impediscono di codificare ciò che sentiamo e porci quindi in modo critico rispetto al mondo. Ci sono state tolte le parole per dire ciò che non si può dire – quello che sentiamo, le orride emozioni. Ci si chiederà quale possa essere il legame tra ciò che sentiamo e il mondo del lavoro – nel brano questo e altri punti nodali emergeranno. Non farà ridere, ma potrebbe essere utile.

La capacità di conquista

CDP: «Cara Gabriella, ti ringrazio innanzitutto per aver accettato di farti intervistare. Il tema del lavoro da liberi professionisti è interessante per la categoria dei grafici perché molto spesso – per scelta o loro malgrado – lo sono, con tutti i pregi e i difetti del caso. Ad esempio, da una parte siamo tutti piuttosto informali e amichevoli tra di noi, dall’altra però a tratti si può creare la sensazione che ci sia un territorio che gli altri tuoi colleghi potrebbero occupare; una competizione silenziosa ma incessante.»

G: «Non credo che il sentire un territorio sia una peculiarità del lavoro creativo, quanto piuttosto del lavoro da liberi professionisti. Anzi, è proprio uno dei punti problematici di questa condizione lavorativa, perché è positiva e negativa insieme: la capacità di conquista del territorio è al tempo stesso il cavallo di battaglia e l’elemento di precarietà assoluta dei professionisti.

Molte persone si lamentano di avere un capo stronzo, però per quanto possa essere una persona mediocre avere un capo ti toglie un bel carico di responsabilità dalle spalle: e questo ha a che fare con il territorio. L’esplorazione e la conquista del territorio, in caso di lavoro dipendente, la fa il capo. In caso di libera professione, la fai tu: da una parte non hai nessuno alle spalle che ti possa coprire, dall’altra non hai nessuno che ti imponga delle regole. Quando sei libero professionista ogni azione è tua, e soprattutto è tuo tutto quello che succede dopo le tue scelte.

Ho molti pazienti che perdendo il posto fisso sono finiti nei disturbi più disparati: fobie, depressioni… La perdita della sicurezza può far piombare in una sorta di perdita dei confini.

Tu oggi non hai un territorio prefissato, e quando lo avevi lo percepivi come una gabbia. C’è chi, alla perdita di un superiore che gli dica fin dove deve arrivare, perde l’orientamento. La realtà è la stessa, è la reazione a essa a renderla negativa o positiva.

Perché si mettono i bambini piccoli nel box? Perché lì imparano a stare in piedi; sanno che al di là della rete non possono andare. Il pavimento è fatto di gomma, se cadono non si fanno niente. Se fanno passi fuori dalla rete c’è la mamma, che li prende, sta loro vicino, li fa gattonare, non li fa allontanare… Più o meno quello che succede ai bambini è quello che succede nella vita.»

La scelta

«La capacità di fare delle scelte è importantissima ed è legata alla mentalità imprenditoriale. “Vado a sinistra o vado a destra?” può essere una domanda tragica, o una scelta da fare. La mentalità del libero professionista è: fai la scelta; magari ti sbagli, e se ciò accade troverai un riparo. D’altronde si può capire se una scelta fatta era giusta solo dopo averla fatta e col passare del tempo.

Se mi guadagno da vivere in modo indipendente ma ho delle insicurezze, vedrò la presenza di altri liberi professionisti come una minaccia al mio territorio. È vero che c’è una competizione, ma sono io a scegliere se questa mi possa spaventare o no.

Non credere però che il lavoro da liberi professionisti sia automaticamente più a rischio psicologicamente del lavoro fisso: ci sono persone che non hanno grandi capacità di resilienza e crollano anche nel lavoro dipendente. In particolare tra i miei pazienti mi pare che i più stressati siano gli impiegati di banca: nonostante abbiano uno stipendio e un posto fisso e magari lavorino da vent’anni, negli ultimi anni la gran parte delle banche sta attuando un mobbing incessante sui suoi lavoratori, che vengono messi in una condizione di minaccia continua. Per esempio viene detto loro continuamente che ci sono degli esuberi, e li si tartassa con richieste di efficienza impossibili usando la minaccia velata del licenziamento. In questo modo si crea la situazione peggiore: vivere in modo precario quella che sembrava una situazione stabile.»

La confusione tra privato e lavorativo

«Va detto però che molte persone si trovano obbligate a fare i liberi professionisti perché in realtà manca ormai un sistema che garantisca un contratto a gran parte dei lavoratori. Un redattore di “Progetto Grafico”, Silvio Lorusso, porta avanti una ricerca proprio su questi temi e ha coniato l’azzeccata parola “entreprecariat”, che fotografa bene questa situazione di imprenditoria precaria.»

«È un termine molto giusto e interessante, e a mio parere non è legato “soltanto” a una mancanza politica ma a un sistema che esaspera la solitudine. L’individualizzazione costruttiva è quella che si crea tra genitore e figlio, quando quest’ultimo prende la sua strada e si fa la sua vita. Noi viviamo in un’individualizzazione perpetua, con l’ossessione di costruirci una strada, che naturalmente se è solo di realizzazione professionale è monca. Il lavoro è tutto quello che mi rimane: ad esempio, recito il ruolo del medico anche quando sono a casa con la mia famiglia. Nella vita privata c’è sempre meno rete; le persone riversano nel lavoro tutto quello che prima vi si riversava in modo molto più ridotto. Molte persone soffrono di disturbi dissociativi: nella vita privata sono una persona, in quella pubblica un’altra; e guarda caso molto spesso sono persone di successo sul lavoro e hanno problemi nella vita privata, perché impiegano tutto quello che hanno per sfavillare lavorativamente. Come dicevo prima, anche nei luoghi di lavoro considerati sicuri i dipendenti sono continuamente spinti a performare, a vendere, a spiccare: gli addetti della banca e della posta che sono spinti a pubblicizzare e vendere prodotti oltre a fare il mestiere per cui hanno delle competenze, ad esempio.

La precarietà non sta tanto nelle aspettative di guadagno o nella lunghezza del periodo lavorativo, quanto nel fatto che alcune paure della persona vengono traslate senza nemmeno accorgersene nel campo lavorativo, perché i due piani per molte persone sono completamente sbilanciati. Altrimenti, come potremmo spiegarci che nello stesso ambito lavorativo esistano persone che vivono serenamente e altre che non ce la fanno, a parità di competenze?

Molti dei pazienti che mi arrivano lo fanno dopo essere passati da un Centro di igiene mentale, quando la situazione ormai è gravissima. Molti di loro sono vittime del precariato, ma va fatto un distinguo tra il precariato lavorativo e quello personale. Ci sono persone che non si “buttano” perché hanno paura: quelle paure non hanno a che fare con il tuo lavoro, ma con chi sei tu e quale sia stato il momento nella tua vita in cui qualcuno ti ha fatto interiorizzare che più di là non puoi andare. Il discorso del box che facevo prima: se una persona ha incapacità di muoversi ha alle spalle un genitore castrante, non solo una società attorno a lui che non lo aiuta.»

«Qualche tempo fa è successo un fatto che mi ha sconvolta. Un giovane grafico friulano si è suicidato, lasciando una lettera in cui imputava i motivi del suo gesto alle difficoltà lavorative. La sua famiglia ha deciso di rendere pubblica la lettera.

Io sono rimasta agghiacciata da come questa lettera, scritta in un momento di evidente delirio, sia stata pubblicata da moltissimi giornali senza nessuna cornice interpretativa né cautela. E lo stesso hanno fatto molte persone che hanno condiviso quel brano commentando, semplicemente, che il lavoro oggi è impossibile, che i giovani oggi non hanno possibilità, eccetera… Quindi senza avere nessun distacco critico dall’ultima lettera di un suicida, dando per vere le cose che ha scritto nel momento di massima disperazione.»

«Però vedi come nel definirlo “giovane grafico friulano” lo metti, senza accorgertene, anche tu nella cornice interpretativa che lui si è costruito per se stesso, quella che i giornali e il pubblico di questo suicidio hanno poi accolto. Non era un giovane grafico, non solo: era un giovane; una persona.

Da psicologa do per scontato che un suicidio non sia mai legato solo a un motivo esterno alla persona. Mi lascia però abbastanza colpita come per molte persone questa cosa non sia chiara, e non serve arrivare a un evento così estremo: sempre più spesso parlo con pazienti che fanno difficoltà a capire che hanno una responsabilità nelle cose che fanno, che in ogni evento che li riguarda ci sono anche loro e la loro reazione interiore. Se questo punto salta, se non ho chiaro che non solo le cose ma anche e soprattutto la mia reazione alle cose sono parte integrante della mia vita, allora il motivo di un suicidio può diventare il lavoro.

Torniamo all’individualizzazione. I genitori non ci sono, i fratelli non ci sono perché si tende a fare la famiglia a tre. Ci sono case con tre persone e tre televisori in ambienti diversi.

Quando manca il dialogo manca il confronto, e io che magari sto male per vari motivi tra cui il lavoro e le mie cose personali, non parlo e mi tengo tutto dentro. Credo di decidere, ma quella dettata dalla disperazione non è mai una scelta. Non comunicando, inizio a costruire dentro di me un delirio.

Il delirio è un’immagine della realtà distorta, che una persona esterna al delirio non può condividere perché la vedrebbe come lontana dalla base di realtà. La persona immersa nel delirio, invece, sostituisce la realtà con il suo delirio. La ricerca e l’esperienza clinica, però, ci insegnano che per arrivare a vivere in una realtà delirante il percorso non è breve: la persona delirante, purtroppo, ha alle spalle grandi mancanze e non ha capacità di resilienza.

L’entrata nel mondo del lavoro ha sempre un impatto forte. Per una persona con grandi fragilità ne ha di più, è come entrare nella tana del lupo: le alternative sono tre. O diventi lupo, ovvero ti strutturi a suon di sofferenze, oppure ti fai mangiare. Oppure, se riesci, scappi: rafforzi la tua realtà delirante.

Un mio ex paziente mi diceva: “Ho trentacinque anni, ho tre lauree e non riesco a trovare lavoro”. Tralasciando tutte le difficoltà oggettive di questo momento storico, nella psicoterapia gestaltista quando dici “Non riesco” significa “Non voglio”.

“La mia collega mi ha fatto esaurire!”, “Il capo mi ha fatto deprimere!”… Molte persone mi riportano dei casi in cui viene evidenziato sempre l’input esterno, la loro reazione invece non è mai importante. In questi casi la responsabilità personale non appare mai. Molto spesso in questi casi i pazienti mi frequentano finché non passa la fase negativa, come se un disagio interiore fosse un fastidio passeggero; poi alla delusione seguente tornano. La colpa è sempre fuori di loro, mai dentro. Finché non si riconosce una responsabilità interiore, non si può risolvere nulla.

Secondo te le moltissime persone che hanno condiviso la lettera del suicida, magari corredandola con un “poverino” e approfittandosene per buttar giù due lamentele sul lavoro, provavano compassione per lui?»

Angst

«Quando si parla del lavoro, lo si ricollega spesso all’angoscia. Ieri ho aperto la partita Iva, e la cosa mi ha messo angoscia. Per esempio ho pensato: “adesso esisto agli occhi del fisco, non posso sgarrare”.»

«Attenzione alle parole: perché parli di angoscia? Molte volte il sintomo viene amplificato da una terminologia inadeguata.

A volte vengono ragazzi da me dicendo “ho stra-ansia”, “ho stra-tristezza”, “ho stra-angoscia”. In realtà, scavando un po’, si scopre che provavano paura e agitazione, molto più semplici da gestire di ansia e angoscia. E spesso quando dico loro: “Questa non si chiama ansia ma paura”, loro si risollevano perché hanno la consapevolezza di quello che succede.

Questo punto è molto importante.

Se prendessi questo bicchiere e dicessi “Ecco una pentola”, ci mettessi dentro l’acqua e la pasta e lo piazzassi sul fornello, il bicchiere si romperebbe. Sembra un esempio stupido, ma la costruzione del delirio funziona così: una persona chiama nel modo sbagliato qualcosa, e quando questo qualcosa si rompe esplode tutto.

Che cos’è l’angoscia? Se ti fosse venuta l’angoscia dalla commercialista ieri, saresti rimasta immobilizzata, saresti impallidita, avrebbero dovuto cercare di tranquillizzarti, non saresti riuscita a respirare. Non credo ti sia accaduto questo. È importante alfabetizzare correttamente le nostre reazioni alle cose, perché se non ci riusciamo verremo portati in una direzione diversa rispetto ai dati di fatto.

La gestalt è la terapia della consapevolezza: se questo è un bicchiere, è un bicchiere. Non è una pentola. Guardalo per quello che è, e agisci di conseguenza.

Quando io ho aperto la partita Iva, dopo aver lavorato come dipendente, mi sono arrivate un mucchio di osservazioni: “Adesso sarà più difficile. Sarai il capo e l’operaio. Dovrai saperti organizzare…” Se a una persona non capace di far fronte alle responsabilità vengono fatti questi commenti, quella persona si spaventerà e verrà meno, anche se magari è una persona con un potenziale nel suo lavoro: se non sa stare salda sui suoi piedi e prendersi le sue responsabilità rimarrà bloccata. Questo è il vero precariato.»

«La sensazione di non avere la terra sotto ai piedi.»

«La cosa peggiore è la sensazione di non avere la terra sotto ai piedi quando la terra sotto ai piedi ce l’hai. Prendi delle scelte perché le puoi prendere. E se non ce la fai? Amen. Ci hai provato. Ma adesso che hai preso questa decisione significa che hai già la terra sotto ai piedi. Il contadino semina per il raccolto, poi se va male cambierà coltura.

Quando ho chiuso il regime dei minimi colleghi e commercialisti sono impazziti: “Adesso non entrare nel regime normale! Perché lì paghi le tasse.” Ovvero: uscendo dal regime dei minimi si paga l’Irpef. Però gli anni del regime dei minimi devono servire a metter su un’attività e consolidarla: cosa che viene persa di vista. Conosco persone che stanno negli anni del regime dei minimi, poi quando devono uscirne chiudono l’attività. Ma se ho aperto e l’attività va bene, perché devo chiudere? Conosco anche persone che hanno molto lavoro ma che stanno attente a non superare il tetto del regime forfettario negando lavori che potrebbero fare, e poi si lamentano di non farcela. Ma chi ti ha messo nelle condizioni di non farcela? Lo Stato o tu? Stiamo parlando di un paradosso che diventa l’idea collettiva.

Abbiamo parlato di creatività, progettualità, capacità di prendersi un terreno, di realtà e delirio. Quindi adesso possiamo dire con serenità che la creatività è qualcosa di diverso da pensare di andare sulla luna con la bicicletta e poi lamentarti che non ce l’hai fatta. La creatività e la progettualità si devono fondare su un lavoro interiore per funzionare, su una conoscenza di sé. Tutte le scelte partono da noi e dalle nostre reazioni. Una cosa comune per me può non esserlo per qualcun altro che non ha i mezzi interiori per affrontarla.»

PROGETTO GRAFICO n°

Aprile / 2020

L’intervista è stata inizialmente pubblicata su Progetto grafico 33 “Lavoro”.

Intervista-confronto sul precariato esistenziale
di Caterina Di Paolo a Gabriella Pascazio

Durante le fasi iniziali della preparazione di questo numero sul lavoro è emerso un tema che secondo tutta la redazione sarebbe stato interessante approfondire: le conseguenze psicologiche del lavoro creativo free-lance.

Inizialmente avevo immaginato un pezzo parodistico, per evitare al brano la pesantezza tipica che il tema dell’interiorità sembra portare con sé: volevo scrivere una sorta di psicopatologia quotidiana del lavoro creativo, piena di tic, coazioni a ripetere e complessi resi in modo umoristico. Mi ero quindi messa in contatto con la psicoterapeuta gestaltista Gabriella Pascazio, con l’idea di fare una chiacchierata semiseria sui temi che toccano noi liberi professionisti quotidianamente. Con una discreta sicurezza di me prevedevo già il brano e il suo tono, mettendomi in una posizione di controllo della cosa senza accorgermene.

La discussione è stata proficua, interessante e profonda; ma ha anche fatto venire alla luce alcuni temi con cui io per prima, da professionista, ho forse fatto troppo poco i conti a livello intimo. A qualche tempo da quella discussione, ora che sto tirando le fila di quell’incontro per ricavarne un brano, mi chiedo se il ricercare a tutti i costi l’ironia – come avevo deciso di fare inizialmente – non sia spesso un modo trito per allontanarci da qualcosa che ci spaventa; come già osservava ad esempio David Foster Wallace (che pure è un riferimento per molti di noi).

In un brano di Christian Raimo, Noi e Max Fisher contro il mondo, uscito su minima & moralia nello scorso gennaio, Raimo ricollega le posizioni di Fisher in Realismo capitalista a un’osservazione di Christian Marazzi: lo studioso ha sottolineato come oggi ci si narri in una sorta di bipolarismo – ansia maniacale e disforia – e che questo sia in qualche modo legato alle spinte della società in cui viviamo. Se tendiamo a narrare le nostre felicità come sempre perfette e altissime e le nostre tristezze come ansie e angosce insuperabili, non ci rendiamo conto che proprio queste esagerazioni ci impediscono di codificare ciò che sentiamo e porci quindi in modo critico rispetto al mondo. Ci sono state tolte le parole per dire ciò che non si può dire – quello che sentiamo, le orride emozioni. Ci si chiederà quale possa essere il legame tra ciò che sentiamo e il mondo del lavoro – nel brano questo e altri punti nodali emergeranno. Non farà ridere, ma potrebbe essere utile.

La capacità di conquista

CDP: «Cara Gabriella, ti ringrazio innanzitutto per aver accettato di farti intervistare. Il tema del lavoro da liberi professionisti è interessante per la categoria dei grafici perché molto spesso – per scelta o loro malgrado – lo sono, con tutti i pregi e i difetti del caso. Ad esempio, da una parte siamo tutti piuttosto informali e amichevoli tra di noi, dall’altra però a tratti si può creare la sensazione che ci sia un territorio che gli altri tuoi colleghi potrebbero occupare; una competizione silenziosa ma incessante.»

G: «Non credo che il sentire un territorio sia una peculiarità del lavoro creativo, quanto piuttosto del lavoro da liberi professionisti. Anzi, è proprio uno dei punti problematici di questa condizione lavorativa, perché è positiva e negativa insieme: la capacità di conquista del territorio è al tempo stesso il cavallo di battaglia e l’elemento di precarietà assoluta dei professionisti.

Molte persone si lamentano di avere un capo stronzo, però per quanto possa essere una persona mediocre avere un capo ti toglie un bel carico di responsabilità dalle spalle: e questo ha a che fare con il territorio. L’esplorazione e la conquista del territorio, in caso di lavoro dipendente, la fa il capo. In caso di libera professione, la fai tu: da una parte non hai nessuno alle spalle che ti possa coprire, dall’altra non hai nessuno che ti imponga delle regole. Quando sei libero professionista ogni azione è tua, e soprattutto è tuo tutto quello che succede dopo le tue scelte.

Ho molti pazienti che perdendo il posto fisso sono finiti nei disturbi più disparati: fobie, depressioni… La perdita della sicurezza può far piombare in una sorta di perdita dei confini.

Tu oggi non hai un territorio prefissato, e quando lo avevi lo percepivi come una gabbia. C’è chi, alla perdita di un superiore che gli dica fin dove deve arrivare, perde l’orientamento. La realtà è la stessa, è la reazione a essa a renderla negativa o positiva.

Perché si mettono i bambini piccoli nel box? Perché lì imparano a stare in piedi; sanno che al di là della rete non possono andare. Il pavimento è fatto di gomma, se cadono non si fanno niente. Se fanno passi fuori dalla rete c’è la mamma, che li prende, sta loro vicino, li fa gattonare, non li fa allontanare… Più o meno quello che succede ai bambini è quello che succede nella vita.»

La scelta

«La capacità di fare delle scelte è importantissima ed è legata alla mentalità imprenditoriale. “Vado a sinistra o vado a destra?” può essere una domanda tragica, o una scelta da fare. La mentalità del libero professionista è: fai la scelta; magari ti sbagli, e se ciò accade troverai un riparo. D’altronde si può capire se una scelta fatta era giusta solo dopo averla fatta e col passare del tempo.

Se mi guadagno da vivere in modo indipendente ma ho delle insicurezze, vedrò la presenza di altri liberi professionisti come una minaccia al mio territorio. È vero che c’è una competizione, ma sono io a scegliere se questa mi possa spaventare o no.

Non credere però che il lavoro da liberi professionisti sia automaticamente più a rischio psicologicamente del lavoro fisso: ci sono persone che non hanno grandi capacità di resilienza e crollano anche nel lavoro dipendente. In particolare tra i miei pazienti mi pare che i più stressati siano gli impiegati di banca: nonostante abbiano uno stipendio e un posto fisso e magari lavorino da vent’anni, negli ultimi anni la gran parte delle banche sta attuando un mobbing incessante sui suoi lavoratori, che vengono messi in una condizione di minaccia continua. Per esempio viene detto loro continuamente che ci sono degli esuberi, e li si tartassa con richieste di efficienza impossibili usando la minaccia velata del licenziamento. In questo modo si crea la situazione peggiore: vivere in modo precario quella che sembrava una situazione stabile.»

La confusione tra privato e lavorativo

«Va detto però che molte persone si trovano obbligate a fare i liberi professionisti perché in realtà manca ormai un sistema che garantisca un contratto a gran parte dei lavoratori. Un redattore di “Progetto Grafico”, Silvio Lorusso, porta avanti una ricerca proprio su questi temi e ha coniato l’azzeccata parola “entreprecariat”, che fotografa bene questa situazione di imprenditoria precaria.»

«È un termine molto giusto e interessante, e a mio parere non è legato “soltanto” a una mancanza politica ma a un sistema che esaspera la solitudine. L’individualizzazione costruttiva è quella che si crea tra genitore e figlio, quando quest’ultimo prende la sua strada e si fa la sua vita. Noi viviamo in un’individualizzazione perpetua, con l’ossessione di costruirci una strada, che naturalmente se è solo di realizzazione professionale è monca. Il lavoro è tutto quello che mi rimane: ad esempio, recito il ruolo del medico anche quando sono a casa con la mia famiglia. Nella vita privata c’è sempre meno rete; le persone riversano nel lavoro tutto quello che prima vi si riversava in modo molto più ridotto. Molte persone soffrono di disturbi dissociativi: nella vita privata sono una persona, in quella pubblica un’altra; e guarda caso molto spesso sono persone di successo sul lavoro e hanno problemi nella vita privata, perché impiegano tutto quello che hanno per sfavillare lavorativamente. Come dicevo prima, anche nei luoghi di lavoro considerati sicuri i dipendenti sono continuamente spinti a performare, a vendere, a spiccare: gli addetti della banca e della posta che sono spinti a pubblicizzare e vendere prodotti oltre a fare il mestiere per cui hanno delle competenze, ad esempio.

La precarietà non sta tanto nelle aspettative di guadagno o nella lunghezza del periodo lavorativo, quanto nel fatto che alcune paure della persona vengono traslate senza nemmeno accorgersene nel campo lavorativo, perché i due piani per molte persone sono completamente sbilanciati. Altrimenti, come potremmo spiegarci che nello stesso ambito lavorativo esistano persone che vivono serenamente e altre che non ce la fanno, a parità di competenze?

Molti dei pazienti che mi arrivano lo fanno dopo essere passati da un Centro di igiene mentale, quando la situazione ormai è gravissima. Molti di loro sono vittime del precariato, ma va fatto un distinguo tra il precariato lavorativo e quello personale. Ci sono persone che non si “buttano” perché hanno paura: quelle paure non hanno a che fare con il tuo lavoro, ma con chi sei tu e quale sia stato il momento nella tua vita in cui qualcuno ti ha fatto interiorizzare che più di là non puoi andare. Il discorso del box che facevo prima: se una persona ha incapacità di muoversi ha alle spalle un genitore castrante, non solo una società attorno a lui che non lo aiuta.»

«Qualche tempo fa è successo un fatto che mi ha sconvolta. Un giovane grafico friulano si è suicidato, lasciando una lettera in cui imputava i motivi del suo gesto alle difficoltà lavorative. La sua famiglia ha deciso di rendere pubblica la lettera.

Io sono rimasta agghiacciata da come questa lettera, scritta in un momento di evidente delirio, sia stata pubblicata da moltissimi giornali senza nessuna cornice interpretativa né cautela. E lo stesso hanno fatto molte persone che hanno condiviso quel brano commentando, semplicemente, che il lavoro oggi è impossibile, che i giovani oggi non hanno possibilità, eccetera… Quindi senza avere nessun distacco critico dall’ultima lettera di un suicida, dando per vere le cose che ha scritto nel momento di massima disperazione.»

«Però vedi come nel definirlo “giovane grafico friulano” lo metti, senza accorgertene, anche tu nella cornice interpretativa che lui si è costruito per se stesso, quella che i giornali e il pubblico di questo suicidio hanno poi accolto. Non era un giovane grafico, non solo: era un giovane; una persona.

Da psicologa do per scontato che un suicidio non sia mai legato solo a un motivo esterno alla persona. Mi lascia però abbastanza colpita come per molte persone questa cosa non sia chiara, e non serve arrivare a un evento così estremo: sempre più spesso parlo con pazienti che fanno difficoltà a capire che hanno una responsabilità nelle cose che fanno, che in ogni evento che li riguarda ci sono anche loro e la loro reazione interiore. Se questo punto salta, se non ho chiaro che non solo le cose ma anche e soprattutto la mia reazione alle cose sono parte integrante della mia vita, allora il motivo di un suicidio può diventare il lavoro.

Torniamo all’individualizzazione. I genitori non ci sono, i fratelli non ci sono perché si tende a fare la famiglia a tre. Ci sono case con tre persone e tre televisori in ambienti diversi.

Quando manca il dialogo manca il confronto, e io che magari sto male per vari motivi tra cui il lavoro e le mie cose personali, non parlo e mi tengo tutto dentro. Credo di decidere, ma quella dettata dalla disperazione non è mai una scelta. Non comunicando, inizio a costruire dentro di me un delirio.

Il delirio è un’immagine della realtà distorta, che una persona esterna al delirio non può condividere perché la vedrebbe come lontana dalla base di realtà. La persona immersa nel delirio, invece, sostituisce la realtà con il suo delirio. La ricerca e l’esperienza clinica, però, ci insegnano che per arrivare a vivere in una realtà delirante il percorso non è breve: la persona delirante, purtroppo, ha alle spalle grandi mancanze e non ha capacità di resilienza.

L’entrata nel mondo del lavoro ha sempre un impatto forte. Per una persona con grandi fragilità ne ha di più, è come entrare nella tana del lupo: le alternative sono tre. O diventi lupo, ovvero ti strutturi a suon di sofferenze, oppure ti fai mangiare. Oppure, se riesci, scappi: rafforzi la tua realtà delirante.

Un mio ex paziente mi diceva: “Ho trentacinque anni, ho tre lauree e non riesco a trovare lavoro”. Tralasciando tutte le difficoltà oggettive di questo momento storico, nella psicoterapia gestaltista quando dici “Non riesco” significa “Non voglio”.

“La mia collega mi ha fatto esaurire!”, “Il capo mi ha fatto deprimere!”… Molte persone mi riportano dei casi in cui viene evidenziato sempre l’input esterno, la loro reazione invece non è mai importante. In questi casi la responsabilità personale non appare mai. Molto spesso in questi casi i pazienti mi frequentano finché non passa la fase negativa, come se un disagio interiore fosse un fastidio passeggero; poi alla delusione seguente tornano. La colpa è sempre fuori di loro, mai dentro. Finché non si riconosce una responsabilità interiore, non si può risolvere nulla.

Secondo te le moltissime persone che hanno condiviso la lettera del suicida, magari corredandola con un “poverino” e approfittandosene per buttar giù due lamentele sul lavoro, provavano compassione per lui?»

Angst

«Quando si parla del lavoro, lo si ricollega spesso all’angoscia. Ieri ho aperto la partita Iva, e la cosa mi ha messo angoscia. Per esempio ho pensato: “adesso esisto agli occhi del fisco, non posso sgarrare”.»

«Attenzione alle parole: perché parli di angoscia? Molte volte il sintomo viene amplificato da una terminologia inadeguata.

A volte vengono ragazzi da me dicendo “ho stra-ansia”, “ho stra-tristezza”, “ho stra-angoscia”. In realtà, scavando un po’, si scopre che provavano paura e agitazione, molto più semplici da gestire di ansia e angoscia. E spesso quando dico loro: “Questa non si chiama ansia ma paura”, loro si risollevano perché hanno la consapevolezza di quello che succede.

Questo punto è molto importante.

Se prendessi questo bicchiere e dicessi “Ecco una pentola”, ci mettessi dentro l’acqua e la pasta e lo piazzassi sul fornello, il bicchiere si romperebbe. Sembra un esempio stupido, ma la costruzione del delirio funziona così: una persona chiama nel modo sbagliato qualcosa, e quando questo qualcosa si rompe esplode tutto.

Che cos’è l’angoscia? Se ti fosse venuta l’angoscia dalla commercialista ieri, saresti rimasta immobilizzata, saresti impallidita, avrebbero dovuto cercare di tranquillizzarti, non saresti riuscita a respirare. Non credo ti sia accaduto questo. È importante alfabetizzare correttamente le nostre reazioni alle cose, perché se non ci riusciamo verremo portati in una direzione diversa rispetto ai dati di fatto.

La gestalt è la terapia della consapevolezza: se questo è un bicchiere, è un bicchiere. Non è una pentola. Guardalo per quello che è, e agisci di conseguenza.

Quando io ho aperto la partita Iva, dopo aver lavorato come dipendente, mi sono arrivate un mucchio di osservazioni: “Adesso sarà più difficile. Sarai il capo e l’operaio. Dovrai saperti organizzare…” Se a una persona non capace di far fronte alle responsabilità vengono fatti questi commenti, quella persona si spaventerà e verrà meno, anche se magari è una persona con un potenziale nel suo lavoro: se non sa stare salda sui suoi piedi e prendersi le sue responsabilità rimarrà bloccata. Questo è il vero precariato.»

«La sensazione di non avere la terra sotto ai piedi.»

«La cosa peggiore è la sensazione di non avere la terra sotto ai piedi quando la terra sotto ai piedi ce l’hai. Prendi delle scelte perché le puoi prendere. E se non ce la fai? Amen. Ci hai provato. Ma adesso che hai preso questa decisione significa che hai già la terra sotto ai piedi. Il contadino semina per il raccolto, poi se va male cambierà coltura.

Quando ho chiuso il regime dei minimi colleghi e commercialisti sono impazziti: “Adesso non entrare nel regime normale! Perché lì paghi le tasse.” Ovvero: uscendo dal regime dei minimi si paga l’Irpef. Però gli anni del regime dei minimi devono servire a metter su un’attività e consolidarla: cosa che viene persa di vista. Conosco persone che stanno negli anni del regime dei minimi, poi quando devono uscirne chiudono l’attività. Ma se ho aperto e l’attività va bene, perché devo chiudere? Conosco anche persone che hanno molto lavoro ma che stanno attente a non superare il tetto del regime forfettario negando lavori che potrebbero fare, e poi si lamentano di non farcela. Ma chi ti ha messo nelle condizioni di non farcela? Lo Stato o tu? Stiamo parlando di un paradosso che diventa l’idea collettiva.

Abbiamo parlato di creatività, progettualità, capacità di prendersi un terreno, di realtà e delirio. Quindi adesso possiamo dire con serenità che la creatività è qualcosa di diverso da pensare di andare sulla luna con la bicicletta e poi lamentarti che non ce l’hai fatta. La creatività e la progettualità si devono fondare su un lavoro interiore per funzionare, su una conoscenza di sé. Tutte le scelte partono da noi e dalle nostre reazioni. Una cosa comune per me può non esserlo per qualcun altro che non ha i mezzi interiori per affrontarla.»

PROGETTO GRAFICO n°

Febbraio / 2020

Note su Flicks Books, cineforum @ bruno, Venezia
In occasione di BookBiennale
29-30-31 agosto 2019

29 agosto
John Berger, Ways of seeing ep.1 (1972)
Chris Marker, La Jetée (1962)
Hollis Frampton, Poetic Justice (1972)

30 agosto
Time enough at last, The twilight zone (full) (1959)
The Obsolete man, The twilight zone (full) (1961)
Alain Resnais, Toute la mémoire du monde (1956)

31 agosto
US National Archives, The day the books went blank (1961)
John Morgan, Blank dummy (2011)
Hans-Jörg Pochmann The information (2016), Rollenwechsel (2016)

La selezione di questi dieci oggetti – che chiameremo corti per economia, riferendoci pigramente alla durata e non all’intenzione di rifarsi a un genere cinematografico – supera la letteralità di una raccolta di film tratti da libri, film che contengono libri, o meta-narrazioni scaturite da libri letti da un personaggio nello sviluppo della trama stessa. L’idea è quella di raccogliere, da intendersi come avvicinare, casi notevoli di relazioni di presenza/assenza tra immagine in movimento e rappresentazione cartacea o di oggetti editoriali; impossibile, quindi, non ragionare su specificità dei medium, rimediazione, aboutness, etc. scomodando – irresponsabilmente – Arthur C. Danto, Rosalind Krauss, Clement Greenberg, Jay Bolter e Richard Grusin.

La distanza di geografie, epoche, intenzioni e contesti che hanno visto la nascita di questi corti chiedono uno sforzo di orientamento per capire di cosa stiamo parlando, ma il contenuto di questo breve ciclo di proiezioni che chiameremo per economia cineforum – pur non prevedendo un momento di discussione, ma continuando la metafora cinematografica ispirata dalla simultaneità con i giorni della settantaseiesima mostra del cinema 2019 – è nel percorso descritto dalla sequenza divisa in tre aree non stagne, forse circolari; in senso ampio e inclusivo: immagine come copia, biblioteche e libri bianchi.

Nel nostro caso, il feticcio della proiezione da pellicola originale dei cineforum più ortodossi perde consapevolmente qualità e diventa una playlist informale di url di Youtube, Dailymotion e Vimeo, (quasi) sempre disponibile e “portatile” sebbene fragile e precaria data la frequente conflittualità legale dell’upload.
L’evento ospitato da bruno avviene in uno spostamento di situazioni e significati, riassumibile in corti : url = cineforum : playlist.

Alla richiesta di una selezione di film da proiettare in una libreria che si occupa di editoria d’arte – affine quindi a problematiche ontologiche sull’esistenza del libro al giorno d’oggi – si è risposto da una prospettiva che non appartiene a un cineasta o a un accademico di immagine cinematografica, ma a un designer di libri alla ricerca degli intrecci tra costruzione narrativa e struttura del volume, l’atterraggio delle informazioni primarie sulle pagine e il modo in cui queste ultime creano un innesco durante la fruizione, in sintesi il funzionamento di un libro visivo. 

Il primo corto è, in realtà, uno zero, inteso come base teorica e ideologica di un universo di pratiche artistiche e progettuali, consapevoli della propria posizione e esistenza, che si sono interrogate della natura simbolica e tecnica delle immagini (fisse o in movimento). È il primo dei quattro episodi di Ways of Seeing (1972), scritti da John Berger, trasmessi dalla rete generalista BBC Two, dichiaratamente ispirati a L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1935) di Walter Benjamin. Questo primo episodio, il più benjaminiano, quello sulla replica, diffusione e trasmissione delle immagini (gli altri trattano nudo femminile, pittura a olio e pubblicità) è il punto di partenza dei nostri collegamenti, non per ordine cronologico rispetto ai successivi, ma per la chiarezza divulgativa sulle basi dei processi di comunicazione mediati dalla tecnologia.

Nello stesso anno della trasmissione televisiva, Ways of seeing viene pubblicato in forma libro da Penguin e messo in pagina da Richard Hollis che partecipò anche all’adattamento testuale.
La struttura della pagina di Ways of seeing, antesignana dello scroll dei browser (immagini e testi in un unico “nastro”), è “contesa” con Munari che ne dichiara la paternità nella Nota allo schema grafico di Artista e Designer (1966) ma alla radice dell’influente progetto grafico troviamo gli introvabili Commentaires di Chris Marker (e Juliette Caputo), pubblicati nel 1961, come dichiarato dallo stesso Hollis su «eye magazine» 59.

Highlights: Berger vandalizza Botticelli nei primi secondi del video, una bellissima e sottile “r” moscia, l’ottima camicia, un violento cambio di acconciatura a metà episodio, alcuni trucchi metacinematografici con giochi di inquadrature ci spiegano la specificità dei medium (televisivo) meglio di Clement Greenberg. 

La Jetée di Chris Marker (1962) è una pietra miliare, non solo del cinema distopico e di sperimentazione, ma della ricerca nello storytelling in senso ampio, in cui la narrazione si snoda quasi unicamente attraverso una sequenza di fotografie accompagnate da una voce di un narratore fuori campo. Non avendo nessuna autorità per parlare degli aspetti teorici e cinematografici, rimando all’ampia letteratura condensata nell’omonimo libro di Chris Darke (uno dei massimi ricercatori di Chris Marker e curatore della retrospettiva a Whitechapel A Grin without a cat, 2014) pubblicato dal British Film institute nel 2016. Cercando un’assonanza con la costruzione e progettazione di libri, troviamo argomenti nel rapporto problematico tra il film e la sua incarnazione in libro visivo, a cura della graphic design-star Bruce Mau, pubblicata da Zone Books nel 1993 con il titolo di La Jetée – ciné-roman, giocando sul credito nell’originale photo-roman de Chris Marker

Credo che l’interesse nel capolavoro del 1962 sia nella sfida che lo spettatore accetta, ossia la ricerca dell’opera originale e soggetto della narrazione: sono le fotografie (gli scatti su pellicola fotografica)? È nelle immagini delle fotografie, le riproduzioni su pellicola cinematografica con traccia audio a margine? È nel testo? È nell’unica sequenza in movimento con audio (ambientale)? È nel workbook di Marker con le sequenze di provini a contatto esposto a Whitechapel nel 2014?
Un libro come cinè-roman, che raggruppa le immagini per scene e che contiene uno spoiler sulle citazioni di Hitchcock da parte di Marker, traducendo in una seconda lingua problematizza e moltiplica gli aspetti da osservare da vicino.

Lost & gained in translation (Federico Antonini, Progetto grafico 32)

Al contrario, le 150 copie cartacee di Poetic Justice pubblicate da Visual Studies Workshop nel 1973 traducono perfettamente le immagini in “movimento” di Hollis Frampton. Una sequenza di 240 fogli manoscritti che lentamente si impilano davanti alla camera in un set composto da un tavolo, un caffè lungo e un cactus. 

Se il raggruppamento delle fotografie – orizzontale, semantico e narrativo – di ciné-roman tradiva contemporaneamente il montaggio omogeneo del corto e la verticalità del workbook, che in qualche modo mimava la sequenza di impressione di una pellicola cinematografica, l’“inquadratura” di Poetic Justice verso il film è perfetta nella sua letteralità e nel rapporto 1:1 tra frame del film e pagina orizzontale del libro. L’unico elemento aggiunto è l’ispessimento (sembra ricalcato con lo stesso pennarello che ha segnato i fogli ripresi, sarebbe bellissimo)  della calligrafia sui fogli, sarebbe stata poco incisiva, se tradotta in maniera didascalica dalla pellicola 16mm. La “versione” libro di Poetic Justice arriva dove non è arrivato ciné-roman e risolve meglio l’atterraggio di un’operazione opaca almeno quanto La Jetée.

Note: sogno una versione libro parallela ancora più letterale, didascalica, un’edizione anastatica di quel blocco di fogli accumulati con narrazione inversa e l’obbligo di lettura con pianta e caffè. O la replica anastatica del copione, la cui esistenza moltiplica l’opacità dell’operazione. 

Interessante pensare al livello di informalità della calligrafia maiuscola e morbida del “prodotto” del copione rispetto al copione stesso, ben formalizzato e formattato a macchina.
Il soggetto è la narrazione e si incarna in
1) copione
2) fogli manoscritti
3) fogli ripresi dalla camera su pellicola
4) fogli ripresi dalla camera su pellicola stampati sulle pagine del libro.
Spingere alle estreme conseguenze la radice di One and Three Chairs.

I due episodi di Twilight Zone (Ai confini della realtà in Italia) sono due dei tre episodi che della serie nordamericana scritta da Rod Serling che ruotano intorno ai libri, il terzo To serve man, escluso per il finale demenziale. I due proiettati hanno a che fare con la vita con i libri, nello specifico i dolori di un avido lettore (Time Enough at Last, S1E8) e di un bibliotecario (The Obsolete Man, S2E29). Nel primo, Henry Bemis è un impiegato di banca ipermetrope, con una reading list infinita, forse un pessimo marito di una pessima moglie che si sente trascurata a causa dei ritmi di lettura del primo. Dopo un’apocalisse nucleare non meglio definita, si ritrova a essere l’ultimo uomo sulla terra (antefatto simile a quello di un altro episodio della serie Last man on Earth – che ha ispirato negli anni vari film e serie tv) in uno scenario romantico di rovine di una biblioteca e cumuli di libri (ruinenlust meets tsundoku) e ha tutto il tempo di cui ha bisogno per poter leggere quello che vuole. Ovviamente il karma gli impedirà di sopravvivere alla sua reading list.

L’altro episodio ha la struttura di un processo e condanna da parte di un tribunale di uno stato oscurantista che oscilla tra sovietico e nazi (a partire dalla costruzione di inquadrature e scenografie dal taglio espressionista europeo) ai danni di un bibliotecario, ritenuto colpevole di essere un membro della società divenuto inutile. L’episodio è una serenata moralista verso il valore sociale e culturale delle biblioteche contro l’oscurantismo e censura. Scritto e diretto negli USA negli anni cinquanta. 

Di una diversa retorica educativa (oltre che visioni grottesche di pile di libri) sono imbevuti i due corti successivi a cavallo del secondo e terzo segmento: Toute le memoire du monde (1956) e The day the books went blank (1961). Due film a tema bibliotecario prodotti su commissione il primo per la serie dell’Encyclopédie de Paris, il secondo dal Library extensions agency dei sei stati del New England. Antitetici in tutto, la differenza sostanziale dei due corti è che il primo è un capolavoro del cinema francese di Alain Resnais dedicato alla Biblioteca nazionale francese di Parigi. Paradossalmente al momento ci interessa il prop – materiale di scena – libresco di un aiutante luminoso come Chris Marker (nei crediti Chris and Magic Marker) e lo spazio che ricava e riempie di autonarrazione simbolica e easter egg, moltiplicando i livelli di osservazione e interpretazione come in una tavola allegorica. La sezione del corto che racconta l’acquisizione di un volume, dalla ricezione postale all’archiviazione sugli scaffali, usa come oggetto di scena un numero fittizio delle guide turistiche Petite Planete dirette dallo stesso Marker dal 1954 al 1964 con l’aiuto della designer Juliette Caputo (creditata in Toute le memoire du monde come Giulietta Caputo); il numero 25 nel corto di Resnais, non è dedicato a una nazione ma al pianeta Marte, nella reale produzione editoriale di Seuil, qualche anno dopo il numero 25 sarà dedicato alla Jugoslavia e l’ossessione nel trovare collegamenti tra i punti potrebbe far pensare a uno schema preciso. Sembra sia stato preso un numero già rilegato del volume sull’Italia, il numero 3.
Oltre a una comparsata di Marker alle prese con un carrello di libri su cui primeggia Mars, durante il segmento che ne descrive l’acquisizione vengono svelati oltre alla copertina che raffigura Lucia Bosé anche frontespizio e indice in un condensato di rimandi simbolici a Marker stesso: maschere di gatti (animale guida e tema onnipresente nella sua opera, come soggetto, come comparsa, come avatar); veneri del Botticelli con maschere tribali (tre anni prima Marker e Resnais avevano diretto Les statues meurent aussi); nomi del Pantheon di amici e miti di Marker nascosti nell’indice; la scheda archivistica che attribuisce l’autorialità a Jeannine Garane (assistente di Marker sul set di Olympia ’52) e la collocazione nel reparto astrofisica, etc.

The day the books went blank è un corto educativo/divulgativo con una committenza pubblica alle spalle e senza alcuna aspirazione artistica, se non quella accidentale conferita da una rilettura a posteriori in cui avviciniamo l’escamotage narrativo che compare nei primi minuti del film: il what if semi-fantascientifico nell’immaginare la scomparsa di ogni informazione stampata dai libri e documenti di una biblioteca – alle pratiche artistiche intorno a vuoto/monocromia/rimozione che nascevano in quegli anni. Più che focalizzarsi sulle conseguenze di un tale svuotamento di contenuti e valori per le comunità, la narrazione si focalizza su cosa fare per non arrivare alla decadenza e al disuso delle biblioteche pubbliche: raccogliere fondi!
Nella call to action finale: I libri nella tua biblioteca sono vuoti? Potrebbero esserlo se non li leggi.

In sintesi, un organismo borgesiano in grado di ospitare libri che non esistono VS la biblioteca intesa come un luogo in cui un meccanico può trovare un manuale utile a riparare una macchina.

Sfruttando la comparsa di questi prop bianchi, ossessione personale nei parallelismi tra arti concettuali e post concettuali, fotogenia/fotografia da catalogo di arredamento, comicità demenziale fino a oggetto quasi diaristico della professione di designer di oggetti editoriali, ci colleghiamo all’ultimo segmento. John Morgan (designer di libri di Londra, ha incrociato la strada con Venezia nella realizzazione dell’immagine della tredicesima Biennale arte di David Chipperfield del 2013) ci ha concesso di proiettare il suo Blank Dummy (2011) una collaborazione con Michael Harvey che mette in scena un incontro di lavoro in cui viene presentato un mock up in bianco (dummy, maquette, etc) di un testo sacro (presumibilmente una Bibbia) per una lettura da un leggio o da un altare. I clienti esigenti spesso tendono a proiettare se stessi nella pubblicazione su cui metteranno il visto, e spesso il libro subisce analisi insolite: in questo corto il cliente religioso opera una serie di test performativo-masochistici su una Bibbia vuota.

La violenza su volumi vuoti torna nei due video di Hans-Jörg Pochmann, in The information (on killing one’s darlings and creating content) (2014) in cui lo stesso Pochmann documenta una sua performance in cui scaglia ripetutamente un libro bianco contro pavimento e pareti di una stanza vuota. Sorprende quanta violenza possa sopportare un tascabile in mano a un malintenzionato. Dopo che i due volumi si sono dati forma a vicenda (ecco il collegamento all’accezione Flusseriana del titolo, to inform, dare forma), Pochmann scansionerà i resti del libro distrutto per produrre un libro cartaceo e un ebook poco più che vuoti che si perdono in un trompe l’oeil di ri-mediazioni e immagini di immagini. Kill your darlings e creazione di contenuti.

Il secondo video di Hans-Jörg Pochmann Rollenwechsel (2014) e ultimo in playlist racconta con camera fissa il cambio di una bobina di carta industriale, tra i suoni infernali dei macchinari il foglio si anima e il volume cilindrico che apparentemente è fermo nella sua rotazione, se non per la lenta crescita di spessore, diventa una sorta di fiammata di carta. Il titolo è un gioco di parole, con rollen in tedesco si indica sia ruolo che rotolo, il cambio (wechsel) di rollen è sia il cambio del rotolo industriale ma anche un riferimento allo stabilimento di Kriebstein che produce carta riciclata per volantini di supermercati, fatti a loro volta di volantini di supermercati riciclati e potenzialmente mai aperti.

Fantasie retroattive: sogno un artista Fluxus sconosciuto di quelli con la passione per la misurazione (Stanley Brouwn, Nam June Paik su tutti) che negli anni Sessanta esegue la stessa ripresa su pellicola sovrapponendo le misure dei due rotoli.

Prima immagine: Sacchetto popcorn, carta alimentare e stampa digitale (2019) design e concept di bruno.

PROGETTO GRAFICO n°

Febbraio / 2020

Note su Flicks Books, cineforum @ bruno, Venezia
In occasione di BookBiennale
29-30-31 agosto 2019

29 agosto
John Berger, Ways of seeing ep.1 (1972)
Chris Marker, La Jetée (1962)
Hollis Frampton, Poetic Justice (1972)

30 agosto
Time enough at last, The twilight zone (full) (1959)
The Obsolete man, The twilight zone (full) (1961)
Alain Resnais, Toute la mémoire du monde (1956)

31 agosto
US National Archives, The day the books went blank (1961)
John Morgan, Blank dummy (2011)
Hans-Jörg Pochmann The information (2016), Rollenwechsel (2016)

La selezione di questi dieci oggetti – che chiameremo corti per economia, riferendoci pigramente alla durata e non all’intenzione di rifarsi a un genere cinematografico – supera la letteralità di una raccolta di film tratti da libri, film che contengono libri, o meta-narrazioni scaturite da libri letti da un personaggio nello sviluppo della trama stessa. L’idea è quella di raccogliere, da intendersi come avvicinare, casi notevoli di relazioni di presenza/assenza tra immagine in movimento e rappresentazione cartacea o di oggetti editoriali; impossibile, quindi, non ragionare su specificità dei medium, rimediazione, aboutness, etc. scomodando – irresponsabilmente – Arthur C. Danto, Rosalind Krauss, Clement Greenberg, Jay Bolter e Richard Grusin.

La distanza di geografie, epoche, intenzioni e contesti che hanno visto la nascita di questi corti chiedono uno sforzo di orientamento per capire di cosa stiamo parlando, ma il contenuto di questo breve ciclo di proiezioni che chiameremo per economia cineforum – pur non prevedendo un momento di discussione, ma continuando la metafora cinematografica ispirata dalla simultaneità con i giorni della settantaseiesima mostra del cinema 2019 – è nel percorso descritto dalla sequenza divisa in tre aree non stagne, forse circolari; in senso ampio e inclusivo: immagine come copia, biblioteche e libri bianchi.

Nel nostro caso, il feticcio della proiezione da pellicola originale dei cineforum più ortodossi perde consapevolmente qualità e diventa una playlist informale di url di Youtube, Dailymotion e Vimeo, (quasi) sempre disponibile e “portatile” sebbene fragile e precaria data la frequente conflittualità legale dell’upload.
L’evento ospitato da bruno avviene in uno spostamento di situazioni e significati, riassumibile in corti : url = cineforum : playlist.

Alla richiesta di una selezione di film da proiettare in una libreria che si occupa di editoria d’arte – affine quindi a problematiche ontologiche sull’esistenza del libro al giorno d’oggi – si è risposto da una prospettiva che non appartiene a un cineasta o a un accademico di immagine cinematografica, ma a un designer di libri alla ricerca degli intrecci tra costruzione narrativa e struttura del volume, l’atterraggio delle informazioni primarie sulle pagine e il modo in cui queste ultime creano un innesco durante la fruizione, in sintesi il funzionamento di un libro visivo. 

Il primo corto è, in realtà, uno zero, inteso come base teorica e ideologica di un universo di pratiche artistiche e progettuali, consapevoli della propria posizione e esistenza, che si sono interrogate della natura simbolica e tecnica delle immagini (fisse o in movimento). È il primo dei quattro episodi di Ways of Seeing (1972), scritti da John Berger, trasmessi dalla rete generalista BBC Two, dichiaratamente ispirati a L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1935) di Walter Benjamin. Questo primo episodio, il più benjaminiano, quello sulla replica, diffusione e trasmissione delle immagini (gli altri trattano nudo femminile, pittura a olio e pubblicità) è il punto di partenza dei nostri collegamenti, non per ordine cronologico rispetto ai successivi, ma per la chiarezza divulgativa sulle basi dei processi di comunicazione mediati dalla tecnologia.

Nello stesso anno della trasmissione televisiva, Ways of seeing viene pubblicato in forma libro da Penguin e messo in pagina da Richard Hollis che partecipò anche all’adattamento testuale.
La struttura della pagina di Ways of seeing, antesignana dello scroll dei browser (immagini e testi in un unico “nastro”), è “contesa” con Munari che ne dichiara la paternità nella Nota allo schema grafico di Artista e Designer (1966) ma alla radice dell’influente progetto grafico troviamo gli introvabili Commentaires di Chris Marker (e Juliette Caputo), pubblicati nel 1961, come dichiarato dallo stesso Hollis su «eye magazine» 59.

Highlights: Berger vandalizza Botticelli nei primi secondi del video, una bellissima e sottile “r” moscia, l’ottima camicia, un violento cambio di acconciatura a metà episodio, alcuni trucchi metacinematografici con giochi di inquadrature ci spiegano la specificità dei medium (televisivo) meglio di Clement Greenberg. 

La Jetée di Chris Marker (1962) è una pietra miliare, non solo del cinema distopico e di sperimentazione, ma della ricerca nello storytelling in senso ampio, in cui la narrazione si snoda quasi unicamente attraverso una sequenza di fotografie accompagnate da una voce di un narratore fuori campo. Non avendo nessuna autorità per parlare degli aspetti teorici e cinematografici, rimando all’ampia letteratura condensata nell’omonimo libro di Chris Darke (uno dei massimi ricercatori di Chris Marker e curatore della retrospettiva a Whitechapel A Grin without a cat, 2014) pubblicato dal British Film institute nel 2016. Cercando un’assonanza con la costruzione e progettazione di libri, troviamo argomenti nel rapporto problematico tra il film e la sua incarnazione in libro visivo, a cura della graphic design-star Bruce Mau, pubblicata da Zone Books nel 1993 con il titolo di La Jetée – ciné-roman, giocando sul credito nell’originale photo-roman de Chris Marker

Credo che l’interesse nel capolavoro del 1962 sia nella sfida che lo spettatore accetta, ossia la ricerca dell’opera originale e soggetto della narrazione: sono le fotografie (gli scatti su pellicola fotografica)? È nelle immagini delle fotografie, le riproduzioni su pellicola cinematografica con traccia audio a margine? È nel testo? È nell’unica sequenza in movimento con audio (ambientale)? È nel workbook di Marker con le sequenze di provini a contatto esposto a Whitechapel nel 2014?
Un libro come cinè-roman, che raggruppa le immagini per scene e che contiene uno spoiler sulle citazioni di Hitchcock da parte di Marker, traducendo in una seconda lingua problematizza e moltiplica gli aspetti da osservare da vicino.

Lost & gained in translation (Federico Antonini, Progetto grafico 32)

Al contrario, le 150 copie cartacee di Poetic Justice pubblicate da Visual Studies Workshop nel 1973 traducono perfettamente le immagini in “movimento” di Hollis Frampton. Una sequenza di 240 fogli manoscritti che lentamente si impilano davanti alla camera in un set composto da un tavolo, un caffè lungo e un cactus. 

Se il raggruppamento delle fotografie – orizzontale, semantico e narrativo – di ciné-roman tradiva contemporaneamente il montaggio omogeneo del corto e la verticalità del workbook, che in qualche modo mimava la sequenza di impressione di una pellicola cinematografica, l’“inquadratura” di Poetic Justice verso il film è perfetta nella sua letteralità e nel rapporto 1:1 tra frame del film e pagina orizzontale del libro. L’unico elemento aggiunto è l’ispessimento (sembra ricalcato con lo stesso pennarello che ha segnato i fogli ripresi, sarebbe bellissimo)  della calligrafia sui fogli, sarebbe stata poco incisiva, se tradotta in maniera didascalica dalla pellicola 16mm. La “versione” libro di Poetic Justice arriva dove non è arrivato ciné-roman e risolve meglio l’atterraggio di un’operazione opaca almeno quanto La Jetée.

Note: sogno una versione libro parallela ancora più letterale, didascalica, un’edizione anastatica di quel blocco di fogli accumulati con narrazione inversa e l’obbligo di lettura con pianta e caffè. O la replica anastatica del copione, la cui esistenza moltiplica l’opacità dell’operazione. 

Interessante pensare al livello di informalità della calligrafia maiuscola e morbida del “prodotto” del copione rispetto al copione stesso, ben formalizzato e formattato a macchina.
Il soggetto è la narrazione e si incarna in
1) copione
2) fogli manoscritti
3) fogli ripresi dalla camera su pellicola
4) fogli ripresi dalla camera su pellicola stampati sulle pagine del libro.
Spingere alle estreme conseguenze la radice di One and Three Chairs.

I due episodi di Twilight Zone (Ai confini della realtà in Italia) sono due dei tre episodi che della serie nordamericana scritta da Rod Serling che ruotano intorno ai libri, il terzo To serve man, escluso per il finale demenziale. I due proiettati hanno a che fare con la vita con i libri, nello specifico i dolori di un avido lettore (Time Enough at Last, S1E8) e di un bibliotecario (The Obsolete Man, S2E29). Nel primo, Henry Bemis è un impiegato di banca ipermetrope, con una reading list infinita, forse un pessimo marito di una pessima moglie che si sente trascurata a causa dei ritmi di lettura del primo. Dopo un’apocalisse nucleare non meglio definita, si ritrova a essere l’ultimo uomo sulla terra (antefatto simile a quello di un altro episodio della serie Last man on Earth – che ha ispirato negli anni vari film e serie tv) in uno scenario romantico di rovine di una biblioteca e cumuli di libri (ruinenlust meets tsundoku) e ha tutto il tempo di cui ha bisogno per poter leggere quello che vuole. Ovviamente il karma gli impedirà di sopravvivere alla sua reading list.

L’altro episodio ha la struttura di un processo e condanna da parte di un tribunale di uno stato oscurantista che oscilla tra sovietico e nazi (a partire dalla costruzione di inquadrature e scenografie dal taglio espressionista europeo) ai danni di un bibliotecario, ritenuto colpevole di essere un membro della società divenuto inutile. L’episodio è una serenata moralista verso il valore sociale e culturale delle biblioteche contro l’oscurantismo e censura. Scritto e diretto negli USA negli anni cinquanta. 

Di una diversa retorica educativa (oltre che visioni grottesche di pile di libri) sono imbevuti i due corti successivi a cavallo del secondo e terzo segmento: Toute le memoire du monde (1956) e The day the books went blank (1961). Due film a tema bibliotecario prodotti su commissione il primo per la serie dell’Encyclopédie de Paris, il secondo dal Library extensions agency dei sei stati del New England. Antitetici in tutto, la differenza sostanziale dei due corti è che il primo è un capolavoro del cinema francese di Alain Resnais dedicato alla Biblioteca nazionale francese di Parigi. Paradossalmente al momento ci interessa il prop – materiale di scena – libresco di un aiutante luminoso come Chris Marker (nei crediti Chris and Magic Marker) e lo spazio che ricava e riempie di autonarrazione simbolica e easter egg, moltiplicando i livelli di osservazione e interpretazione come in una tavola allegorica. La sezione del corto che racconta l’acquisizione di un volume, dalla ricezione postale all’archiviazione sugli scaffali, usa come oggetto di scena un numero fittizio delle guide turistiche Petite Planete dirette dallo stesso Marker dal 1954 al 1964 con l’aiuto della designer Juliette Caputo (creditata in Toute le memoire du monde come Giulietta Caputo); il numero 25 nel corto di Resnais, non è dedicato a una nazione ma al pianeta Marte, nella reale produzione editoriale di Seuil, qualche anno dopo il numero 25 sarà dedicato alla Jugoslavia e l’ossessione nel trovare collegamenti tra i punti potrebbe far pensare a uno schema preciso. Sembra sia stato preso un numero già rilegato del volume sull’Italia, il numero 3.
Oltre a una comparsata di Marker alle prese con un carrello di libri su cui primeggia Mars, durante il segmento che ne descrive l’acquisizione vengono svelati oltre alla copertina che raffigura Lucia Bosé anche frontespizio e indice in un condensato di rimandi simbolici a Marker stesso: maschere di gatti (animale guida e tema onnipresente nella sua opera, come soggetto, come comparsa, come avatar); veneri del Botticelli con maschere tribali (tre anni prima Marker e Resnais avevano diretto Les statues meurent aussi); nomi del Pantheon di amici e miti di Marker nascosti nell’indice; la scheda archivistica che attribuisce l’autorialità a Jeannine Garane (assistente di Marker sul set di Olympia ’52) e la collocazione nel reparto astrofisica, etc.

The day the books went blank è un corto educativo/divulgativo con una committenza pubblica alle spalle e senza alcuna aspirazione artistica, se non quella accidentale conferita da una rilettura a posteriori in cui avviciniamo l’escamotage narrativo che compare nei primi minuti del film: il what if semi-fantascientifico nell’immaginare la scomparsa di ogni informazione stampata dai libri e documenti di una biblioteca – alle pratiche artistiche intorno a vuoto/monocromia/rimozione che nascevano in quegli anni. Più che focalizzarsi sulle conseguenze di un tale svuotamento di contenuti e valori per le comunità, la narrazione si focalizza su cosa fare per non arrivare alla decadenza e al disuso delle biblioteche pubbliche: raccogliere fondi!
Nella call to action finale: I libri nella tua biblioteca sono vuoti? Potrebbero esserlo se non li leggi.

In sintesi, un organismo borgesiano in grado di ospitare libri che non esistono VS la biblioteca intesa come un luogo in cui un meccanico può trovare un manuale utile a riparare una macchina.

Sfruttando la comparsa di questi prop bianchi, ossessione personale nei parallelismi tra arti concettuali e post concettuali, fotogenia/fotografia da catalogo di arredamento, comicità demenziale fino a oggetto quasi diaristico della professione di designer di oggetti editoriali, ci colleghiamo all’ultimo segmento. John Morgan (designer di libri di Londra, ha incrociato la strada con Venezia nella realizzazione dell’immagine della tredicesima Biennale arte di David Chipperfield del 2013) ci ha concesso di proiettare il suo Blank Dummy (2011) una collaborazione con Michael Harvey che mette in scena un incontro di lavoro in cui viene presentato un mock up in bianco (dummy, maquette, etc) di un testo sacro (presumibilmente una Bibbia) per una lettura da un leggio o da un altare. I clienti esigenti spesso tendono a proiettare se stessi nella pubblicazione su cui metteranno il visto, e spesso il libro subisce analisi insolite: in questo corto il cliente religioso opera una serie di test performativo-masochistici su una Bibbia vuota.

La violenza su volumi vuoti torna nei due video di Hans-Jörg Pochmann, in The information (on killing one’s darlings and creating content) (2014) in cui lo stesso Pochmann documenta una sua performance in cui scaglia ripetutamente un libro bianco contro pavimento e pareti di una stanza vuota. Sorprende quanta violenza possa sopportare un tascabile in mano a un malintenzionato. Dopo che i due volumi si sono dati forma a vicenda (ecco il collegamento all’accezione Flusseriana del titolo, to inform, dare forma), Pochmann scansionerà i resti del libro distrutto per produrre un libro cartaceo e un ebook poco più che vuoti che si perdono in un trompe l’oeil di ri-mediazioni e immagini di immagini. Kill your darlings e creazione di contenuti.

Il secondo video di Hans-Jörg Pochmann Rollenwechsel (2014) e ultimo in playlist racconta con camera fissa il cambio di una bobina di carta industriale, tra i suoni infernali dei macchinari il foglio si anima e il volume cilindrico che apparentemente è fermo nella sua rotazione, se non per la lenta crescita di spessore, diventa una sorta di fiammata di carta. Il titolo è un gioco di parole, con rollen in tedesco si indica sia ruolo che rotolo, il cambio (wechsel) di rollen è sia il cambio del rotolo industriale ma anche un riferimento allo stabilimento di Kriebstein che produce carta riciclata per volantini di supermercati, fatti a loro volta di volantini di supermercati riciclati e potenzialmente mai aperti.

Fantasie retroattive: sogno un artista Fluxus sconosciuto di quelli con la passione per la misurazione (Stanley Brouwn, Nam June Paik su tutti) che negli anni Sessanta esegue la stessa ripresa su pellicola sovrapponendo le misure dei due rotoli.

Prima immagine: Sacchetto popcorn, carta alimentare e stampa digitale (2019) design e concept di bruno.

PROGETTO GRAFICO n°

Dicembre / 2019

Immagine: ‘Reticolati del cielo’, illustrazione di una ricetta futurista in F.T. Marinetti, Fillìa, La cucina futurista, Il Formichiere, Perugia, 2018, p. IX.

Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina.

Non importa dove si trova, com’è fatta: purché sia una cucina, un posto dove si fa da mangiare, io sto bene. Se possibile le preferisco funzionali e vissute. Magari con tantissimi strofinacci asciutti e puliti e le piastrelle bianche che scintillano.

Difficile non nutrire gli stessi sentimenti di Banana Yoshimoto per lo spazio della cucina, nonostante le differenze culturali che ci separano dalla scrittrice giapponese, di cui è stato ripreso del famoso romanzo Kitchen[1] (1991) l’incipit. Verrebbe da aggiungere solo che all’interno delle cucine che in tanti amiamo ci sono oltre ad apparecchi, strumenti, utensili di ogni tipologia, materiale, finitura, colore, in una vertigine di oggetti piccolissimi così come di grandi dimensioni, dai nomi più svariati che includono diminutivi e superlativi, anche i libri, non di qualsiasi genere, ma di quelli che si presentano come un perfetto ibrido tra un severo manuale d’uso e un vivace volume di letteratura, i libri o manuali di cucina o nella traduzione anglosassone i cook book. Sfogliando, consultando, leggendo tali manuali i cibi possono essere, anche se solo attraverso la capacità dell’immaginazione e della memoria gustativa di quanto già conosciuto, visti, annusati, assaporati, indipendentemente dalla presenza delle riproduzioni fotografiche delle pietanze in fase di lavorazione o già impiattate, pronte per essere portate a tavola e consumate. Immagini che il più delle volte nulla aggiungono ma piuttosto sottraggono alla capacità immaginativa, come inevitabilmente accade nel passaggio dalla parola scritta alla forma visiva che tende a rappresentarla, e che mai riesce a essere del tutto completa ed esaustiva nella traduzione dell’originale. Paolo Fabbri definisce nel suo saggio omonimo «palatogrammi»[2], le immagini adoperate nei trattati della cucina, quelle che definiscono il sistema dell’iconografia culinaria, delle perfette “messe in scena” che ci restituiscono intermini di informazioni più di quanto vorremmo e meno di quanto chiediamo.

E qui si spalanca un tema, quello della rappresentazione dei cibi, attraverso la tecnica della fotografia, che sarà ripreso in seguito in termini grafici e infografici, un tema che necessiterebbe di un adeguato approfondimento, ne siamo consapevoli, basti in questo momento come promemoria per successive letture il richiamare due concetti tra gli altri: quello della “cucina ornamentale”[3] di Roland Barthes in cui alla guarnizione è richiesto il compito di camuffare il verismo dei cibi e tradurli in una realtà fiabesca che nulla hanno a che spartire con i piatti reali, ripresi come sono il più delle volte dall’alto, in una vista così innaturale ed estetizzante, che li rende inarrivabili, atti a essere consumati unicamente dallo sguardo piuttosto che assaporati; e quello relativo al più attuale fenomeno, perché tale si può chiamare, del food porn che coinvolge non solo i manuali di cucina ma le tante pratiche diffuse di auto produzione di immagini legate ai cibi intonsi, immortalati nei piatti, appena prima di essere consumati, secondo una definizione coniata nel 1984 da Rosalind Coward, la quale sottolinea come la sovraesposizione del cibo tende a mettere in mostra il piacere, annullando in termini di valore sia l’atto del cucinare sia la figura –femminile il più delle volte– di chi compie l’atto, similmente a quanto accade nella pornografia.

Ma torniamo ai libri. Non c’è dubbio che sono proprio strani oggetti i manuali di cucina abituati a vivere, non su scaffali di imperturbabili biblioteche, ma tra quelli che sono i peggiori nemici di ogni artefatto cartaceo ovvero l’acqua e il fuoco, come li aveva considerati e catalogati William Blades, in The Enemies of Books, rispetto ai tanti che nel tempo sono stati per fortuna debellati.

Quei nemici giurati dei libri che in una cucina regnano assolutamente sovrani e presiedono ogni fase nella preparazione dei cibi, insieme ai loro devoti sudditi, i vapori, gli schizzi, gli odori,… i cui effetti di certo non sono meno dannosi dei primi. Ma sono libri coraggiosi i manuali di cucina che non temono di essere usati fino allo sfinimento, prestando le loro pagine alle pieghe, agli scarabocchi, agli strappi, e poi alle veloci riparazioni per potere mantenere leggibili i testi pur con le righe disallineate e l’assenza di qualche lettera o intera parola[4].

Nel sistema che definisce le diverse tipologie di volumi di cui si occupa la grafica editoriale nell’ambito del design della comunicazione visiva, una sezione a sé, con una sua storia, una sua struttura, un suo preciso linguaggio, è quello occupato dai libri di cucina, veri e propri manuali d’uso per la preparazione dei cibi, e così dovrebbero essere sempre chiamati, non semplicemente ricettari, molto più genericamente e riduttivamente, i quali rappresentano degli artefatti atti a contenere non solo pratiche e tecniche ma anche indicazioni relative ad alimenti, dosaggi, tempi, temperature, lavorazioni, procedure, finiture, tutti aspetti questi che li fanno più assomigliare a manuali tecnici piuttosto che a libri di letteratura culinaria, o forse come accennato prima sono solo libri dalla duplice identità che inglobano tra le loro pagine entrambe le nature, quella tecnico-scientifica e quella puramente narrativa.

Sono questi artefatti che impongono la fissità di una istantanea, ottenuta attraverso il processo riproduttivo della stampa tipografica, a un ambito come quello della cucina le cui ricette, che posseggono una loro precisa struttura e sequenza del racconto, sono soggette nel tempo laddove persiste una tradizione orale, a incessanti interpolazioni, modifiche, traduzioni, tradimenti. Ma ciò non accade con la tradizione scritta, laddove, secondo il sociologo inglese Jack Rankine Goody, come riporta ne lo L’addomesticamento del pensiero selvaggio (1990), proprio l’affermarsi di tale tradizione nelle culture che ne sono depositarie –determinata dalla nascita della scrittura alfabetica e della stampa– ha fatto in modo che si sviluppasse un genere di letteratura tecnica, quello del trattato culinario, che ha consentito nel tempo, attraverso la costruzione di una memoria artificiale, di conservare e accumulare i testi delle ricette, necessari per la nascita di una storia gastronomica, così come di prepararne le successive trasformazioni.

Il più antico ricettario di cucina italiano a noi pervenuto è il volume Liber de coquina (XIII-XIV secolo) scritto in latino volgare da un autore di cui non ci è giunto il nome, presso la corte Angioina di Napoli. Il volume costituisce una testimonianza unica per ricostruire le abitudini alimentari in uso nelle corti d’Italia e d’Europa nel tardo medioevo. Da quell’esempio in poi tale tipologia di pubblicazione si è diffusa e trasformata profondamente passando dall’essere un volume unicamente testuale al diventare un sistema sempre più complesso in cui ordinatamente tra le pagine trovano posto testi e immagini, per accompagnare il fruitore nelle diverse fasi della preparazione dei cibi. Tale evoluzione è strettamente collegata alla presenza della tradizione scritta in cui, sempre come riporta Jack Rankine Goody, fanno la loro apparizione quei generi scrittori non discorsivi come la tabella, la lista, la formula e la ricetta. Quei generi che non esistono nella cultura orale e sono le rappresentazioni plastiche di un pensiero sistemico che possono essere letti come dirette conseguenze dell’uso della scrittura. La ricetta nei primi esempi di libri di cucina si presentava con una struttura poco dettagliata e confusa, come un elenco sommario in cui erano assenti non solo le dosi, i tempi di cottura, e i procedimenti, ma talvolta non erano citati neanche tutti gli ingredienti necessari per la realizzazione della pietanza. La definizione della struttura della ricetta, accompagnata da una completezza di informazioni, ha portato sempre più verso l’esigenza di avere uno strumento editoriale, il manuale di cucina, in grado di tenere insieme dati di natura diversa, chiaro nelle spiegazioni così da accompagnare il fruitore durante l’intero processo preparatorio, dal reperimento degli ingredienti sino alla guarnizione del piatto.

A voler osservare più da vicino il manuale da cucina possiamo riscontrare tutti quegli aspetti che definiscono i materiali finiti o “semilavorati” nella progettazione della grafica editoriale, ovvero: la gabbia editoriale o layout, la tipografia, l’apparato iconografico, il formato, il materiale, la rilegatura.

La gabbia editoriale che ovviamente varia per ogni volume, è strutturata in modo da accogliere contributi diversi che necessitano di essere distinti e gerarchizzati così da facilitare la lettura e definire la sequenza delle operazioni, elemento non secondario nell’esecuzione delle ricette. Nella pagina si disporranno, nel rispetto di quello schema invisibile e ordinatore che è la gabbia editoriale, i titoli delle ricette –talvolta anche tradotti in dialetto o in altre lingue– l’elenco degli ingredienti, il loro dosaggio, i tempi di cottura, il procedimento, l’allestimento e la guarnizione dei piatti, differenziati per posizione, per peso del carattere, per colore. Questo sistema, direttamente collegato alla descrizione e all’esecuzione della ricetta, viene accompagnato da tutti quei piccoli elementi che normalmente occupano le parti marginali delle pagine di un libro come titoli e titoletti, note a piè di pagina, numeri di pagina. La gabbia editoriale consente di distribuire le diverse informazioni nello spazio così da facilitare la lettura e il susseguirsi delle fasi della preparazione che coinvolgono direttamente il manuale e il fruitore, il quale dovrà trovare tra le sue pagine ogni risposta alle sue domande in un dialogo costante e silenzioso.

Se è importante la definizione dell’architettura delle informazioni che trova la propria collocazione all’interno dello schema strutturale lo è altrettanto la scelta di una adeguata font tipografica che possa contribuire attraverso l’uso dei diversi pesi e corpi a gerarchizzare i dati e a renderli leggibili e chiari nella successione in cui vanno letti. La disputa tra chi considera le font con le grazie o serif –come vengono definiti i caratteri tipografici che possiedono alle estremità dei glifi degli allungamenti ortogonali–e quelle senza grazie o sanserif, più o meno leggibili delle altre è sempre aperta. Negli anni per l’impaginazione dei manuali di cucina sono state spesso adoperate delle font calligrafiche, quasi una lontana memoria della manualità della trascrizione delle ricette, che di quel romantico riferimento ormai conserva ben poco considerato che le font vengono generate da fonderie digitali, attraverso un processo che di quel calore possiede solo una falso e lontano ricordo.

Che siano serif o sanserif i caratteri tipografici giocano un ruolo centrale nella definizione dei manuali di cucina in quanto a loro è riservato il compito di gestione delle informazioni nel dar loro una diversa importanza e contribuire a definirne la posizione gerarchica nella sequenza del processo. Per ottenere questo risultato vengono messe in campo e adoperate tutte le armi che una font possiede nella sua ampia famiglia: i pesi –intesi come lo spessore dei singoli glifi che vanno da quelli sottilissimi come il light o thin a quelli robusti come il black o l’ultra–; i minuscoli, i maiuscoli, i maiuscoletti e i fondamentali corsivi che restituiscono al testo un tono quasi confidenziale, nati per imitazione della scrittura a mano e contraddistinti da una leggera inclinazione delle lettere verso destra. Una volta scelta la tipografia il passaggio successivo è dato dall’impaginazione grafica dei testi che è strutturata secondo schemi e regole come la forma della composizione–giustificata, a bandiera, a epigrafe,…– l’ampiezza dell’interlinea –più o meno larga con un valore in relazione alla dimensione del carattere– la dimensione della giustezza –la lunghezza del rigo in base alle lettere che lo compongono che va controllata per non rendere difficoltosa la lettura quando è eccessiva–; elementi che concorrono a rendere quanto più coerenti tra loro il contenuto del manuale e la sua traduzione grafica, in un sistema di lettura che restituisce in modo chiaro un procedimento che si sviluppa nello spazio della cucina e nel tempo della preparazione.

Il formato adoperato spazia dal rettangolare alto, di certo il più comune e funzionale, al quadrato sino al rettangolare basso, per non citare le forme più disparate che possono essere scelte per l’impaginazione di tali volumi, ora che le tecniche di stampa e di finitura dei libri non mettono freni anche alle più eccessive e spesso inutili fantasie. Sarà utile rileggere i Dieci errori fondamentali nella produzione di libri come vengono riportati in un capitolo a chiusura del volume La forma del libro di Jan Tschichold[5], per evitare di commetterne di simili laddove perdiamo di vista la relazione indissolubile che esiste in ogni area del design tra forma e funzione, nella grafica editoriale tra forma e contenuto.

I materiali adoperati per la realizzazione dei manuali di cucina sono passati dall’essere unicamente cartacei, che si differenziano per spessore, composizione, colore, texture, lavorazioni e trattamenti vari come le plastificazioni laddove si richiede alla carta di potere resistere all’usura e ai danni derivanti dall’essere adoperata nello spazio della cucina. Oggi i materiali possono anche essere di natura completamente diversa, non più costituiti dalle fibre cartacee ma sostituite dagli stimoli luminosi di un display o di un monitor, laddove la narrazione della ricetta si sviluppa su piani differenti, in cui la presenza statica del testo e dell’immagine sono affiancati dagli strumenti dinamici del video e dell’audio.

La rilegatura che tiene insieme la sequenza delle pagine, nelle diverse tipologie di spillata, cucita, incollata, può lasciare il passo a sistemi che consentono una diversa fruizione dell’artefatto come ad esempio quello a schede, tenute insieme da raccoglitori, scatole, anelli, che non richiedono l’atto dello sfogliare secondo una precisa sequenza data dalla collocazione delle pagine nel libro, ma presuppone la selezione e la lettura della singola scheda che facilita la consultazione sul piano di lavoro, laddove questa ha bisogno di essere collocata e adoperata.

Nella composizione del manuale, ad affiancare il sistema testuale, interviene l’apparato iconografico che nel tempo ha guadagnato una posizione, inizialmente quasi assente o solo marginale, di tutto rilievo. Questa presa di potere la si può cogliere non solo in termini di superficie cartacea conquistata ma anche in termini di ricchezza cromatica, che va dal nero dell’inchiostro, lo stesso adoperato per la composizione del testo, alle più complesse composizioni prima in quadricromia, poi in esacromia, poi ancora nei codici cromatici dei Pantone, tutti esaltati dai trattamenti e finiture di superficie. Già citato il tema dell’iconografia culinaria nella parte iniziale del saggio diventa utile in questa breve scorribanda nel mondo della grafica editoriale sottolineare l’importanza non tanto della rappresentazione fotografica, il cui ruolo è ampiamente affermato, quanto di quella grafica e infografica che sta, se non soppiantando quantomeno affiancando sistematicamente la presenza della fotografia in tali tipologie di pubblicazioni, in un dilagare che pare inarrestabile e che riguarda gli ampi settori della grafica editoriale per le riviste e per le pubblicazioni. Lo straordinario potere dello strumento infografico, che ritroviamo oggi in gran parte dei sistemi di informazione e della carta stampata, risiede nel riuscire a tradurre la complessità dei dati in una modalità che consente la lettura delle immagini e la visione dei testi, attraverso un processo di semplificazione e discretizzazione dei contenuti senza che questi vengano in alcun modo impoveriti piuttosto tradotti correttamente per la loro più ampia divulgazione. Il rischio degli strumenti infografici è che vengano unicamente apprezzati per il loro valore estetico, che è indubbio ed è una conseguenza del lavoro progettuale che li sottende, ma non è la loro qualità principale che risiede invece nella capacità di traduzione e passaggio dalla complessità alla semplicità. Davvero interessante e inaspettato quello che si ottiene quando lo strumento infografico attraversa le pagine di un manuale di cucina, in grado di dare visibilità ai passaggi solo descritti nella preparazione dei cibi. Ma proviamo a intercettare nel corso della storia più recente alcuni esempi che mostrano la progressiva trasformazione dei manuali da cucina nei quali sempre più spesso il rapporto tra testi e immagini appare modificato sino a essere, in alcuni casi, completamente capovolto rispetto al passato.

La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene è il volume di Pellegrino Artusi, che nel 1891 sancisce a pochi decenni dalla sua formazione quell’unificazione dell’Italia, che passa anche attraverso l’unificazione della cucina italiana pur nella contemplazione delle differenze delle cucine regionali; in esso le immagini contenute sono poche e semplici, costituite da forme geometriche che richiamano sommariamente i diametri di paste e dolci regionali.

La cucina futurista scritto a quattro mani da Filippo Tommaso Marinetti e Fillìa (pseudonimo di Luigi Colombo) è un volume di difficile catalogazione che esprime tutta la forza propulsiva del movimento che travolge con impeto anche il settore culinario, di cui [i futuristi] rivendicano il diritto a una gastronomia esperienziale che fosse in grado di esprimersi in ogni forma, con un esercizio di comunicazione basato sul linguaggio multidisciplinare[6]. In esso compaiono schemi e disegni, in cui i cibi vengo rappresentati in una forma geometrica che richiama micro architetture con viste planimetriche, assonometriche o con sezioni longitudinali a simulare i nuovi e sperimentali piatti che richiedono a loro volta nuovi e diversi sistemi di rappresentazione. Potremmo considerarli dei primi quanto fondativi tentativi di graficizzazione che porteranno molti decenni dopo, all’inserimento degli strumenti infografici, i quali insieme alla fotografia e all’illustrazione vanno a completare l’apparato iconografico dei manuali di cucina. Un motivo in più per essere grati ai futuristi per quanto hanno saputo, attraverso le loro rivoluzioni irriverenti, anche nel campo del design della comunicazione visiva, intravedere nuovi orizzonti e individuare sconosciuti territori da esplorare.

Tra gli esempi più recenti quelli scelti non sono bastevoli a rappresentare la ricchezza delle sperimentazioni in atto, vanno considerati pertanto come sparuti frammenti esemplificativi di una ben più ampia e radicale trasformazione nel campo della traduzione e rappresentazione grafica dei più diversi contenuti testuali e iconografici dei manuali di cucina.

Crêpes Suzette[7] è un esempio di ricetta non lineare e infografica in cui la storia e le diverse fasi della preparazione del dolce sono rappresentate con l’uso di poche parole ampiamente affiancate da schemi, pittogrammi, simboli che traducono, visualizzano e definiscono l’intero processo di preparazione, tenuto insieme da un itinerario disegnato che scandisce il tempo e la successione delle fasi, richiamando alla memoria i ben più specialistici manuali d’uso di oggetti tecnologici.

La caponata di melanzane[8], anch’essa un esempio di ricetta infografica, mostra in modo schematico la sequenza delle fasi, e in modo insolito i processi chimici delle reazioni che avvengono durante la preparazione della complessa ricetta della tradizionale cucina siciliana.

Ricette scumbenate[9] è un ricettario illustrato che mette insieme dodici ricette della tradizione culinaria salentina, ampiamente rivisitate e raccontate più che attraverso le parole attraverso le illustrazioni le quali definiscono le scene di immaginari interni di cucine in cui si muovono e vengono rappresentati personaggi, ingredienti, strumenti e cibi, nella composizione di un quadro surreale e descrittivo.

Spollo Kitchen[10] è il progetto collettivo che sperimenta una formula ibrida di ricettario in cui la sua natura di miscellanea, viene esaltata dall’essere un manuale di cucina scritto da più persone, tante quanti sono i designer che a livello nazionale e internazionale hanno risposto alla domanda posta dalla call “Cosa mangiano i grafici?”. Ogni pagina e ogni ricetta sono espressione di un progettista della sua cultura visiva e culinaria, del suo linguaggio, che è quello grafico o illustrativo più che testuale, sintetico più che esteso, schematico più che descrittivo.

Le singole ricette che nascono per dar vita a grandi manifesti culinari si rimpiccioliscono per essere contenute nelle pagine di Spollo Kitchen per poi di nuovo, riacquistando la loro macro dimensione, tornare a essere poster infografici o illustrati per popolare l’esposizione dedicata al racconto evocativo più che alla puntuale spiegazione della singola ricetta.

E quella che suona come un’ironica proposta ma è in realtà la formulazione di un template per la traduzione infografica di qualsiasi ricetta di cucina, è contenuta nel progetto di Thanksalot Collective che forniscono al fruitore online un vero e proprio kit per l’auto trasformazione grafica di ogni ricetta, che nella versione ridotta, composta da cinque ricette base, è open source e tradotta in diverse lingue.

Non mancano altre sperimentazioni in cui gli “ingredienti” che compongono un manuale di cucina sono assoggettati a un complesso layout che tutti li governa all’interno delle pagine. È quello che accade nel volume di Ko Sliggers, Koken tussen Italiaanse vulkanen[11] (La cucina italiana all’ombra del  vulcano), olandese di nascita e siciliano di adozione, grafico di formazione e cuoco per vocazione, che ha fuso le diverse attitudini in un progetto, espressione del suo linguaggio e della sua ricerca nell’ambito della grafica e della cucina, dimostrando come entrambi richiedano competenze specifiche, fatte di teorie e prassi.

A conclusione di queste riflessioni sulla trasformazione nel tempo della struttura narrativa sempre a lieto fine dei manuali di cucina, emergono e si ripresentano una serie di dicotomie: leggerezza e pesantezza, semplicità e complessità, sistema infografico e sistema testuale, dicotomie che esprimono un progressivo processo di contaminazione tra grafica e cucina, che va ben oltre la semplice traduzione, con la quale convivere senza bisogno di fare emergere un aspetto rispetto al suo opposto, se siamo convinti del vivere in una dimensione plurale, multiverso e radiale, in cui nessun centro è, ne sarà forse mai più, in alcun modo privilegiato rispetto agli altri.

Bibliografia

Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, Salvatore Landi Editore, 1891

Jack Goody, L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Franco Angeli, Milano, 1990

Leonardo Romei, Progettare la comunicazione. Esempi, esperimenti, metodi, modelli, Stampa Alternativa & Graffiti, Roma, 2015

F.T. Marinetti, Fillìa, La cucina futurista, Il Formichiere, Perugia, 2018

Roland Barthes, Brillat-Savarin letto da Roland Barthes, Sellerio Editore, Palermo, 1978 (Edizione originale: Physiologie du goût avec una Lecture de Roland Barthes, Hermann, Paris 1975)

Roland Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1993

BigSur, Ricette Scumbenate. Dodici storie pop di cucina ‘atipica’ salentina, Edizioni Scumbenate, 2017

William Blades, The Enemies of Books, Elliot Stock, London, 1888

Paolo Fabbri, Palatogrammi, sta in Andrea Pollarini (a cura di), La cucina bricconcella. 1891/1991. Pellegrino Artusi e l’arte di mangiar bene cento anni dopo, Grafis, Casalecchio di Reno, 1991

Massimo Montanari, Il cibo come cultura, Editori Laterza, Bari, 2006

Ko Sliggers, Koken tussen Italiaanse vulkanen, Uitgeverij Loopvis, Nederland, 2013.

Banana Yashimoto, Kitchen, Feltrinelli, Milano, 1996

Jan Tschichold, La forma del libro, Edizioni Sylvetre Bonnard, Cremona, 2003

PROGETTO GRAFICO n°

Dicembre / 2019

Immagine: ‘Reticolati del cielo’, illustrazione di una ricetta futurista in F.T. Marinetti, Fillìa, La cucina futurista, Il Formichiere, Perugia, 2018, p. IX.

Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina.

Non importa dove si trova, com’è fatta: purché sia una cucina, un posto dove si fa da mangiare, io sto bene. Se possibile le preferisco funzionali e vissute. Magari con tantissimi strofinacci asciutti e puliti e le piastrelle bianche che scintillano.

Difficile non nutrire gli stessi sentimenti di Banana Yoshimoto per lo spazio della cucina, nonostante le differenze culturali che ci separano dalla scrittrice giapponese, di cui è stato ripreso del famoso romanzo Kitchen[1] (1991) l’incipit. Verrebbe da aggiungere solo che all’interno delle cucine che in tanti amiamo ci sono oltre ad apparecchi, strumenti, utensili di ogni tipologia, materiale, finitura, colore, in una vertigine di oggetti piccolissimi così come di grandi dimensioni, dai nomi più svariati che includono diminutivi e superlativi, anche i libri, non di qualsiasi genere, ma di quelli che si presentano come un perfetto ibrido tra un severo manuale d’uso e un vivace volume di letteratura, i libri o manuali di cucina o nella traduzione anglosassone i cook book. Sfogliando, consultando, leggendo tali manuali i cibi possono essere, anche se solo attraverso la capacità dell’immaginazione e della memoria gustativa di quanto già conosciuto, visti, annusati, assaporati, indipendentemente dalla presenza delle riproduzioni fotografiche delle pietanze in fase di lavorazione o già impiattate, pronte per essere portate a tavola e consumate. Immagini che il più delle volte nulla aggiungono ma piuttosto sottraggono alla capacità immaginativa, come inevitabilmente accade nel passaggio dalla parola scritta alla forma visiva che tende a rappresentarla, e che mai riesce a essere del tutto completa ed esaustiva nella traduzione dell’originale. Paolo Fabbri definisce nel suo saggio omonimo «palatogrammi»[2], le immagini adoperate nei trattati della cucina, quelle che definiscono il sistema dell’iconografia culinaria, delle perfette “messe in scena” che ci restituiscono intermini di informazioni più di quanto vorremmo e meno di quanto chiediamo.

E qui si spalanca un tema, quello della rappresentazione dei cibi, attraverso la tecnica della fotografia, che sarà ripreso in seguito in termini grafici e infografici, un tema che necessiterebbe di un adeguato approfondimento, ne siamo consapevoli, basti in questo momento come promemoria per successive letture il richiamare due concetti tra gli altri: quello della “cucina ornamentale”[3] di Roland Barthes in cui alla guarnizione è richiesto il compito di camuffare il verismo dei cibi e tradurli in una realtà fiabesca che nulla hanno a che spartire con i piatti reali, ripresi come sono il più delle volte dall’alto, in una vista così innaturale ed estetizzante, che li rende inarrivabili, atti a essere consumati unicamente dallo sguardo piuttosto che assaporati; e quello relativo al più attuale fenomeno, perché tale si può chiamare, del food porn che coinvolge non solo i manuali di cucina ma le tante pratiche diffuse di auto produzione di immagini legate ai cibi intonsi, immortalati nei piatti, appena prima di essere consumati, secondo una definizione coniata nel 1984 da Rosalind Coward, la quale sottolinea come la sovraesposizione del cibo tende a mettere in mostra il piacere, annullando in termini di valore sia l’atto del cucinare sia la figura –femminile il più delle volte– di chi compie l’atto, similmente a quanto accade nella pornografia.

Ma torniamo ai libri. Non c’è dubbio che sono proprio strani oggetti i manuali di cucina abituati a vivere, non su scaffali di imperturbabili biblioteche, ma tra quelli che sono i peggiori nemici di ogni artefatto cartaceo ovvero l’acqua e il fuoco, come li aveva considerati e catalogati William Blades, in The Enemies of Books, rispetto ai tanti che nel tempo sono stati per fortuna debellati.

Quei nemici giurati dei libri che in una cucina regnano assolutamente sovrani e presiedono ogni fase nella preparazione dei cibi, insieme ai loro devoti sudditi, i vapori, gli schizzi, gli odori,… i cui effetti di certo non sono meno dannosi dei primi. Ma sono libri coraggiosi i manuali di cucina che non temono di essere usati fino allo sfinimento, prestando le loro pagine alle pieghe, agli scarabocchi, agli strappi, e poi alle veloci riparazioni per potere mantenere leggibili i testi pur con le righe disallineate e l’assenza di qualche lettera o intera parola[4].

Nel sistema che definisce le diverse tipologie di volumi di cui si occupa la grafica editoriale nell’ambito del design della comunicazione visiva, una sezione a sé, con una sua storia, una sua struttura, un suo preciso linguaggio, è quello occupato dai libri di cucina, veri e propri manuali d’uso per la preparazione dei cibi, e così dovrebbero essere sempre chiamati, non semplicemente ricettari, molto più genericamente e riduttivamente, i quali rappresentano degli artefatti atti a contenere non solo pratiche e tecniche ma anche indicazioni relative ad alimenti, dosaggi, tempi, temperature, lavorazioni, procedure, finiture, tutti aspetti questi che li fanno più assomigliare a manuali tecnici piuttosto che a libri di letteratura culinaria, o forse come accennato prima sono solo libri dalla duplice identità che inglobano tra le loro pagine entrambe le nature, quella tecnico-scientifica e quella puramente narrativa.

Sono questi artefatti che impongono la fissità di una istantanea, ottenuta attraverso il processo riproduttivo della stampa tipografica, a un ambito come quello della cucina le cui ricette, che posseggono una loro precisa struttura e sequenza del racconto, sono soggette nel tempo laddove persiste una tradizione orale, a incessanti interpolazioni, modifiche, traduzioni, tradimenti. Ma ciò non accade con la tradizione scritta, laddove, secondo il sociologo inglese Jack Rankine Goody, come riporta ne lo L’addomesticamento del pensiero selvaggio (1990), proprio l’affermarsi di tale tradizione nelle culture che ne sono depositarie –determinata dalla nascita della scrittura alfabetica e della stampa– ha fatto in modo che si sviluppasse un genere di letteratura tecnica, quello del trattato culinario, che ha consentito nel tempo, attraverso la costruzione di una memoria artificiale, di conservare e accumulare i testi delle ricette, necessari per la nascita di una storia gastronomica, così come di prepararne le successive trasformazioni.

Il più antico ricettario di cucina italiano a noi pervenuto è il volume Liber de coquina (XIII-XIV secolo) scritto in latino volgare da un autore di cui non ci è giunto il nome, presso la corte Angioina di Napoli. Il volume costituisce una testimonianza unica per ricostruire le abitudini alimentari in uso nelle corti d’Italia e d’Europa nel tardo medioevo. Da quell’esempio in poi tale tipologia di pubblicazione si è diffusa e trasformata profondamente passando dall’essere un volume unicamente testuale al diventare un sistema sempre più complesso in cui ordinatamente tra le pagine trovano posto testi e immagini, per accompagnare il fruitore nelle diverse fasi della preparazione dei cibi. Tale evoluzione è strettamente collegata alla presenza della tradizione scritta in cui, sempre come riporta Jack Rankine Goody, fanno la loro apparizione quei generi scrittori non discorsivi come la tabella, la lista, la formula e la ricetta. Quei generi che non esistono nella cultura orale e sono le rappresentazioni plastiche di un pensiero sistemico che possono essere letti come dirette conseguenze dell’uso della scrittura. La ricetta nei primi esempi di libri di cucina si presentava con una struttura poco dettagliata e confusa, come un elenco sommario in cui erano assenti non solo le dosi, i tempi di cottura, e i procedimenti, ma talvolta non erano citati neanche tutti gli ingredienti necessari per la realizzazione della pietanza. La definizione della struttura della ricetta, accompagnata da una completezza di informazioni, ha portato sempre più verso l’esigenza di avere uno strumento editoriale, il manuale di cucina, in grado di tenere insieme dati di natura diversa, chiaro nelle spiegazioni così da accompagnare il fruitore durante l’intero processo preparatorio, dal reperimento degli ingredienti sino alla guarnizione del piatto.

A voler osservare più da vicino il manuale da cucina possiamo riscontrare tutti quegli aspetti che definiscono i materiali finiti o “semilavorati” nella progettazione della grafica editoriale, ovvero: la gabbia editoriale o layout, la tipografia, l’apparato iconografico, il formato, il materiale, la rilegatura.

La gabbia editoriale che ovviamente varia per ogni volume, è strutturata in modo da accogliere contributi diversi che necessitano di essere distinti e gerarchizzati così da facilitare la lettura e definire la sequenza delle operazioni, elemento non secondario nell’esecuzione delle ricette. Nella pagina si disporranno, nel rispetto di quello schema invisibile e ordinatore che è la gabbia editoriale, i titoli delle ricette –talvolta anche tradotti in dialetto o in altre lingue– l’elenco degli ingredienti, il loro dosaggio, i tempi di cottura, il procedimento, l’allestimento e la guarnizione dei piatti, differenziati per posizione, per peso del carattere, per colore. Questo sistema, direttamente collegato alla descrizione e all’esecuzione della ricetta, viene accompagnato da tutti quei piccoli elementi che normalmente occupano le parti marginali delle pagine di un libro come titoli e titoletti, note a piè di pagina, numeri di pagina. La gabbia editoriale consente di distribuire le diverse informazioni nello spazio così da facilitare la lettura e il susseguirsi delle fasi della preparazione che coinvolgono direttamente il manuale e il fruitore, il quale dovrà trovare tra le sue pagine ogni risposta alle sue domande in un dialogo costante e silenzioso.

Se è importante la definizione dell’architettura delle informazioni che trova la propria collocazione all’interno dello schema strutturale lo è altrettanto la scelta di una adeguata font tipografica che possa contribuire attraverso l’uso dei diversi pesi e corpi a gerarchizzare i dati e a renderli leggibili e chiari nella successione in cui vanno letti. La disputa tra chi considera le font con le grazie o serif –come vengono definiti i caratteri tipografici che possiedono alle estremità dei glifi degli allungamenti ortogonali–e quelle senza grazie o sanserif, più o meno leggibili delle altre è sempre aperta. Negli anni per l’impaginazione dei manuali di cucina sono state spesso adoperate delle font calligrafiche, quasi una lontana memoria della manualità della trascrizione delle ricette, che di quel romantico riferimento ormai conserva ben poco considerato che le font vengono generate da fonderie digitali, attraverso un processo che di quel calore possiede solo una falso e lontano ricordo.

Che siano serif o sanserif i caratteri tipografici giocano un ruolo centrale nella definizione dei manuali di cucina in quanto a loro è riservato il compito di gestione delle informazioni nel dar loro una diversa importanza e contribuire a definirne la posizione gerarchica nella sequenza del processo. Per ottenere questo risultato vengono messe in campo e adoperate tutte le armi che una font possiede nella sua ampia famiglia: i pesi –intesi come lo spessore dei singoli glifi che vanno da quelli sottilissimi come il light o thin a quelli robusti come il black o l’ultra–; i minuscoli, i maiuscoli, i maiuscoletti e i fondamentali corsivi che restituiscono al testo un tono quasi confidenziale, nati per imitazione della scrittura a mano e contraddistinti da una leggera inclinazione delle lettere verso destra. Una volta scelta la tipografia il passaggio successivo è dato dall’impaginazione grafica dei testi che è strutturata secondo schemi e regole come la forma della composizione–giustificata, a bandiera, a epigrafe,…– l’ampiezza dell’interlinea –più o meno larga con un valore in relazione alla dimensione del carattere– la dimensione della giustezza –la lunghezza del rigo in base alle lettere che lo compongono che va controllata per non rendere difficoltosa la lettura quando è eccessiva–; elementi che concorrono a rendere quanto più coerenti tra loro il contenuto del manuale e la sua traduzione grafica, in un sistema di lettura che restituisce in modo chiaro un procedimento che si sviluppa nello spazio della cucina e nel tempo della preparazione.

Il formato adoperato spazia dal rettangolare alto, di certo il più comune e funzionale, al quadrato sino al rettangolare basso, per non citare le forme più disparate che possono essere scelte per l’impaginazione di tali volumi, ora che le tecniche di stampa e di finitura dei libri non mettono freni anche alle più eccessive e spesso inutili fantasie. Sarà utile rileggere i Dieci errori fondamentali nella produzione di libri come vengono riportati in un capitolo a chiusura del volume La forma del libro di Jan Tschichold[5], per evitare di commetterne di simili laddove perdiamo di vista la relazione indissolubile che esiste in ogni area del design tra forma e funzione, nella grafica editoriale tra forma e contenuto.

I materiali adoperati per la realizzazione dei manuali di cucina sono passati dall’essere unicamente cartacei, che si differenziano per spessore, composizione, colore, texture, lavorazioni e trattamenti vari come le plastificazioni laddove si richiede alla carta di potere resistere all’usura e ai danni derivanti dall’essere adoperata nello spazio della cucina. Oggi i materiali possono anche essere di natura completamente diversa, non più costituiti dalle fibre cartacee ma sostituite dagli stimoli luminosi di un display o di un monitor, laddove la narrazione della ricetta si sviluppa su piani differenti, in cui la presenza statica del testo e dell’immagine sono affiancati dagli strumenti dinamici del video e dell’audio.

La rilegatura che tiene insieme la sequenza delle pagine, nelle diverse tipologie di spillata, cucita, incollata, può lasciare il passo a sistemi che consentono una diversa fruizione dell’artefatto come ad esempio quello a schede, tenute insieme da raccoglitori, scatole, anelli, che non richiedono l’atto dello sfogliare secondo una precisa sequenza data dalla collocazione delle pagine nel libro, ma presuppone la selezione e la lettura della singola scheda che facilita la consultazione sul piano di lavoro, laddove questa ha bisogno di essere collocata e adoperata.

Nella composizione del manuale, ad affiancare il sistema testuale, interviene l’apparato iconografico che nel tempo ha guadagnato una posizione, inizialmente quasi assente o solo marginale, di tutto rilievo. Questa presa di potere la si può cogliere non solo in termini di superficie cartacea conquistata ma anche in termini di ricchezza cromatica, che va dal nero dell’inchiostro, lo stesso adoperato per la composizione del testo, alle più complesse composizioni prima in quadricromia, poi in esacromia, poi ancora nei codici cromatici dei Pantone, tutti esaltati dai trattamenti e finiture di superficie. Già citato il tema dell’iconografia culinaria nella parte iniziale del saggio diventa utile in questa breve scorribanda nel mondo della grafica editoriale sottolineare l’importanza non tanto della rappresentazione fotografica, il cui ruolo è ampiamente affermato, quanto di quella grafica e infografica che sta, se non soppiantando quantomeno affiancando sistematicamente la presenza della fotografia in tali tipologie di pubblicazioni, in un dilagare che pare inarrestabile e che riguarda gli ampi settori della grafica editoriale per le riviste e per le pubblicazioni. Lo straordinario potere dello strumento infografico, che ritroviamo oggi in gran parte dei sistemi di informazione e della carta stampata, risiede nel riuscire a tradurre la complessità dei dati in una modalità che consente la lettura delle immagini e la visione dei testi, attraverso un processo di semplificazione e discretizzazione dei contenuti senza che questi vengano in alcun modo impoveriti piuttosto tradotti correttamente per la loro più ampia divulgazione. Il rischio degli strumenti infografici è che vengano unicamente apprezzati per il loro valore estetico, che è indubbio ed è una conseguenza del lavoro progettuale che li sottende, ma non è la loro qualità principale che risiede invece nella capacità di traduzione e passaggio dalla complessità alla semplicità. Davvero interessante e inaspettato quello che si ottiene quando lo strumento infografico attraversa le pagine di un manuale di cucina, in grado di dare visibilità ai passaggi solo descritti nella preparazione dei cibi. Ma proviamo a intercettare nel corso della storia più recente alcuni esempi che mostrano la progressiva trasformazione dei manuali da cucina nei quali sempre più spesso il rapporto tra testi e immagini appare modificato sino a essere, in alcuni casi, completamente capovolto rispetto al passato.

La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene è il volume di Pellegrino Artusi, che nel 1891 sancisce a pochi decenni dalla sua formazione quell’unificazione dell’Italia, che passa anche attraverso l’unificazione della cucina italiana pur nella contemplazione delle differenze delle cucine regionali; in esso le immagini contenute sono poche e semplici, costituite da forme geometriche che richiamano sommariamente i diametri di paste e dolci regionali.

La cucina futurista scritto a quattro mani da Filippo Tommaso Marinetti e Fillìa (pseudonimo di Luigi Colombo) è un volume di difficile catalogazione che esprime tutta la forza propulsiva del movimento che travolge con impeto anche il settore culinario, di cui [i futuristi] rivendicano il diritto a una gastronomia esperienziale che fosse in grado di esprimersi in ogni forma, con un esercizio di comunicazione basato sul linguaggio multidisciplinare[6]. In esso compaiono schemi e disegni, in cui i cibi vengo rappresentati in una forma geometrica che richiama micro architetture con viste planimetriche, assonometriche o con sezioni longitudinali a simulare i nuovi e sperimentali piatti che richiedono a loro volta nuovi e diversi sistemi di rappresentazione. Potremmo considerarli dei primi quanto fondativi tentativi di graficizzazione che porteranno molti decenni dopo, all’inserimento degli strumenti infografici, i quali insieme alla fotografia e all’illustrazione vanno a completare l’apparato iconografico dei manuali di cucina. Un motivo in più per essere grati ai futuristi per quanto hanno saputo, attraverso le loro rivoluzioni irriverenti, anche nel campo del design della comunicazione visiva, intravedere nuovi orizzonti e individuare sconosciuti territori da esplorare.

Tra gli esempi più recenti quelli scelti non sono bastevoli a rappresentare la ricchezza delle sperimentazioni in atto, vanno considerati pertanto come sparuti frammenti esemplificativi di una ben più ampia e radicale trasformazione nel campo della traduzione e rappresentazione grafica dei più diversi contenuti testuali e iconografici dei manuali di cucina.

Crêpes Suzette[7] è un esempio di ricetta non lineare e infografica in cui la storia e le diverse fasi della preparazione del dolce sono rappresentate con l’uso di poche parole ampiamente affiancate da schemi, pittogrammi, simboli che traducono, visualizzano e definiscono l’intero processo di preparazione, tenuto insieme da un itinerario disegnato che scandisce il tempo e la successione delle fasi, richiamando alla memoria i ben più specialistici manuali d’uso di oggetti tecnologici.

La caponata di melanzane[8], anch’essa un esempio di ricetta infografica, mostra in modo schematico la sequenza delle fasi, e in modo insolito i processi chimici delle reazioni che avvengono durante la preparazione della complessa ricetta della tradizionale cucina siciliana.

Ricette scumbenate[9] è un ricettario illustrato che mette insieme dodici ricette della tradizione culinaria salentina, ampiamente rivisitate e raccontate più che attraverso le parole attraverso le illustrazioni le quali definiscono le scene di immaginari interni di cucine in cui si muovono e vengono rappresentati personaggi, ingredienti, strumenti e cibi, nella composizione di un quadro surreale e descrittivo.

Spollo Kitchen[10] è il progetto collettivo che sperimenta una formula ibrida di ricettario in cui la sua natura di miscellanea, viene esaltata dall’essere un manuale di cucina scritto da più persone, tante quanti sono i designer che a livello nazionale e internazionale hanno risposto alla domanda posta dalla call “Cosa mangiano i grafici?”. Ogni pagina e ogni ricetta sono espressione di un progettista della sua cultura visiva e culinaria, del suo linguaggio, che è quello grafico o illustrativo più che testuale, sintetico più che esteso, schematico più che descrittivo.

Le singole ricette che nascono per dar vita a grandi manifesti culinari si rimpiccioliscono per essere contenute nelle pagine di Spollo Kitchen per poi di nuovo, riacquistando la loro macro dimensione, tornare a essere poster infografici o illustrati per popolare l’esposizione dedicata al racconto evocativo più che alla puntuale spiegazione della singola ricetta.

E quella che suona come un’ironica proposta ma è in realtà la formulazione di un template per la traduzione infografica di qualsiasi ricetta di cucina, è contenuta nel progetto di Thanksalot Collective che forniscono al fruitore online un vero e proprio kit per l’auto trasformazione grafica di ogni ricetta, che nella versione ridotta, composta da cinque ricette base, è open source e tradotta in diverse lingue.

Non mancano altre sperimentazioni in cui gli “ingredienti” che compongono un manuale di cucina sono assoggettati a un complesso layout che tutti li governa all’interno delle pagine. È quello che accade nel volume di Ko Sliggers, Koken tussen Italiaanse vulkanen[11] (La cucina italiana all’ombra del  vulcano), olandese di nascita e siciliano di adozione, grafico di formazione e cuoco per vocazione, che ha fuso le diverse attitudini in un progetto, espressione del suo linguaggio e della sua ricerca nell’ambito della grafica e della cucina, dimostrando come entrambi richiedano competenze specifiche, fatte di teorie e prassi.

A conclusione di queste riflessioni sulla trasformazione nel tempo della struttura narrativa sempre a lieto fine dei manuali di cucina, emergono e si ripresentano una serie di dicotomie: leggerezza e pesantezza, semplicità e complessità, sistema infografico e sistema testuale, dicotomie che esprimono un progressivo processo di contaminazione tra grafica e cucina, che va ben oltre la semplice traduzione, con la quale convivere senza bisogno di fare emergere un aspetto rispetto al suo opposto, se siamo convinti del vivere in una dimensione plurale, multiverso e radiale, in cui nessun centro è, ne sarà forse mai più, in alcun modo privilegiato rispetto agli altri.

Bibliografia

Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, Salvatore Landi Editore, 1891

Jack Goody, L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Franco Angeli, Milano, 1990

Leonardo Romei, Progettare la comunicazione. Esempi, esperimenti, metodi, modelli, Stampa Alternativa & Graffiti, Roma, 2015

F.T. Marinetti, Fillìa, La cucina futurista, Il Formichiere, Perugia, 2018

Roland Barthes, Brillat-Savarin letto da Roland Barthes, Sellerio Editore, Palermo, 1978 (Edizione originale: Physiologie du goût avec una Lecture de Roland Barthes, Hermann, Paris 1975)

Roland Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1993

BigSur, Ricette Scumbenate. Dodici storie pop di cucina ‘atipica’ salentina, Edizioni Scumbenate, 2017

William Blades, The Enemies of Books, Elliot Stock, London, 1888

Paolo Fabbri, Palatogrammi, sta in Andrea Pollarini (a cura di), La cucina bricconcella. 1891/1991. Pellegrino Artusi e l’arte di mangiar bene cento anni dopo, Grafis, Casalecchio di Reno, 1991

Massimo Montanari, Il cibo come cultura, Editori Laterza, Bari, 2006

Ko Sliggers, Koken tussen Italiaanse vulkanen, Uitgeverij Loopvis, Nederland, 2013.

Banana Yashimoto, Kitchen, Feltrinelli, Milano, 1996

Jan Tschichold, La forma del libro, Edizioni Sylvetre Bonnard, Cremona, 2003

PROGETTO GRAFICO n°

Giugno / 2019

Nel luglio 1991, a un anno dall’“estate italiana” cantata da Edoardo Bennato e Gianna Nannini, la rivista di graphic design “Linea Grafica” mostra per la prima volta sulle sue pagine la nuova identità visiva della Federazione Italiana Giuoco Calcio – FIGC – tracciando un ritratto della sua autrice: Patrizia Pataccini. Nell’articolo si descrive la designer di base a Milano come «una giovane signora che non rassomiglia in alcun modo al modello di donna-manager che gli Anni ‘80 ci hanno fornito come archetipo della nuova professionalità femminile, né tantomeno al suo contrario, cioè all’artista svagata e sognatrice i cui progetti siano connotati da una forte riconoscibilità; si presenta invece come un’efficiente professionista che non indulge, neppure nell’aspetto, a vezzi superflui.»[1]

Patrizia Pataccini nasce a Milano nel 1951. Frequenta il corso di scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Brera e, dopo una breve parentesi londinese, rientra nel capoluogo lombardo dove comincia a collaborare con lo studio GPI Cortesi, al cui interno presto diventa responsabile del settore grafico.[2] Nel corso degli anni si specializza progressivamente nella costruzione di corporate identity complesse, focalizzandosi in particolare sullo studio di applicazioni del marchio nello spazio, di archigrafie e di sistemi di wayfinding.[3]

Al concorso indetto dalla FIGC per la realizzazione di una nuova corporate identity alle soglie del nuovo campionato europeo, Patrizia Pataccini si presenta con una “i” stilizzata, concepita come sintesi della parola “Italia”. Il marchio proposto dalla designer è composto da un rettangolo inclinato, diviso orizzontalmente in tre fasce: una a fondo azzurro occupata da tre stelle gialle, una a fondo bianco con la dicitura della Federazione di colore azzurro e in carattere sans serif – in due varianti: per esteso e sintetizzata con acronimo –, una con il tricolore italiano. Completa il marchio il puntino sulla “i”, un cerchio azzurro posto in alto a sinistra.

Come era già accaduto nel 1984 con il restyling dell’identità visiva FIGC – invariata fino ai mondiali Italia 90 – anche in questo caso il nuovo logo abbandona l’identificazione dello stemma con lo scudo tricolore. Inoltre, il marchio proposto da Patrizia Pataccini, come quello subito precedente, mantiene l’inclinazione orizzontale della bandiera e insieme dell’apparato tipografico, accentuando il dinamismo complessivo della “i” italic.

Per quanto del logo si parli nel 1991 in quella che allora era la principale rivista italiana di graphic design e nonostante la “i” disegnata dalla designer rimanga per nove anni sulle maglie degli Azzurri – per un totale di due europei e due mondiali persi ai rigori – non si hanno tracce né del percorso professionale di Patrizia Pataccini né della sua corporate identity per la FIGC nelle storie della grafica. Solo sul sito Museodelmarchio.it, nel focus dedicato all’evoluzione del logo della Federcalcio, si fa accenno all’autrice e al suo progetto, riportando però il cognome sbagliato: “Pattacini” anziché Pataccini.[4]

Di recente il logo FIGC usato dalla nazionale italiana dal 1991 al 2000, è ricomparso quasi in simultanea su alcuni capi di abbigliamento prodotti da due brand diversi. Il marchio Lack of Guidance, di base ad Amsterdam e interessato all’ibridazione tra calcio e moda, ha proposto una maglia a maniche lunghe grigio melange chiamata Azzurri in cui, al posto della scritta “Federazione Italiana Giuoco Calcio”, compare il nome del brand composto su due righe.[5]

Quasi contemporaneamente la joint venture tra il marchio milanese Iuter e No Kiddin’ NYC, ha dato vita a una capsule collection composta da una maglia da calcio e da una tuta sportiva, entrambe ispirate dalla divisa degli Azzurri al mondiale di calcio statunitense del 1994.[6] In questo caso il marchio della FIGC disegnato da Patrizia Pataccini viene riproposto con cinque stelle anziché tre e con la dicitura che, al posto di quella ufficiale della Federcalcio, sulla maglia diventa “Campioni del mondo” e sulla tuta è “Iuter”.[7]

Negli ultimi anni si è assisto a una frequente osmosi tra calcio e moda: squadre che presentano le divise stagionali utilizzando il lessico e i canali del fashion, maglie sold-out prima ancora di essere indossate dai giocatori sul campo – si veda il caso della divisa Nigeriana prodotta da Nike per i mondiali russi dello scorso anno –, marchi sportwear che lanciano capsule collection firmate insieme a colossi dell’alta moda o a brand streetwear. Come, tra gli altri, ha affermato “i-D” a proposito dell’eredità di Umbro,[8] Il successo del fenomeno del “football fashion” deve certamente molto a una spiccata indole nostalgica. Proprio questo sentimento diventa determinante nel recupero di elaborati dagli archivi storici o dalla memoria storica come è accaduto al logo di Patrizia Pataccini. Per quanto neppure i brand sopra citati menzionino in alcun modo l’autrice, almeno permettono al suo marchio FIGC di rivivere nella memoria collettiva, di presentarsi alle nuove generazioni e concede ai designer grafici e agli storici di riscoprire un elaborato in gran parte dimenticato dalle storie di settore e di interrogarsi sulle ragioni di tale oblio.

Ciò che è interessante notare a partire dai capi d’abbigliamento di cui sopra è che un progetto trascurato dalla storiografia del graphic design possa essere “salvato” da un’attitudine in voga nel mondo fashion, in particolare negli ultimi anni: quella dei rip-off di elaborati della comunicazione visiva avvertiti come parte di una cultura popolare, di una storia collettiva. I loghi in primis sono tornati a essere centrali nelle collezioni di moda e la loro “memificazione” – il loro essere citati come meme, invitando il fruitore a interpretarne tanto il riferimento originario quanto il nuovo messaggio – è diventata una maniera per riappropriarsi di simboli di storie passate e di immaginari condivisi. Marchi di alta moda, aziende di sportwear o streetwear sempre più spesso hanno guardato alla golden age della corporate identity degli anni sessanta-novanta come a un ricco bacino a cui attingere. Tuttavia, la capacità di “campionare” tali artefatti non appartiene solo alla moda oggi. A conferma di ciò, nel 2017 la crew milanese di skater Chef Family GSF, riproponendo alcuni simboli storici del calcio azzurro degli anni novanta attraverso il proprio merchandising,[9] ha incluso anche il logo di Patrizia Pataccini tutt’oggi presente nell’header del sito web del collettivo. Effettivamente, dai fumetti alla trap, dalle fanzine illustrate all’arte, questo trend è riscontrabile in diversi contesti e sembra essere la naturale evoluzione tanto della nostalgia vaporwave quanto della meme-revolution attiva sui social.

Se da un lato questa tendenza a decontestualizzare e a citare insita nella moda invita a guardare alla storia delle comunicazioni visive da un punto di vista inedito, dall’altro i casi di memificazione sono accomunati dalla rinuncia ad approfondire e raccontare l’autorialità di molti dei loghi riproposti. D’altronde, l’atteggiamento opposto, quello cioè di concentrarsi sul racconto degli autori e dei singoli designer spesso ha reso le storie della grafica prive dell’analisi della dialettica tra graphic design e società. Da questo punto di vista, anzi, proprio la rinuncia ad accreditare l’autorialità di tali layout grafici fa riflettere. Se la storia della grafica – come pure il panorama dei graphic designer più in generale – si è mostrata spesso più propensa a evidenziare e incensare figure “eroiche” e a canonizzare correnti e stili formali più che ad approfondire la vita degli elaborati visivi e il loro rapporto con gli utenti finali e la società, l’approccio proposto dai marchi di moda in primis ci invita a leggere la storia del graphic design in maniera meno autoriale.[10]

All’autorialità come valore discriminante per salvare o dimenticare un progetto grafico, questo approccio sembra preferire il fattore della permanenza nella memoria collettiva. In questo modo, attraverso quello che si potrebbe definire meme-dernismo – cioè la capacità di trasformare in meme identità visive o elaborati appartenenti nella gran parte dei casi alla lunga stagione del modernismo nel graphic design – marchi come Lack of Guidance, Iuter e No Kiddin’ NYC riscoprono sia progetti già analizzati dalla storiografia del design sia storie totalmente dimenticate. I rip-off possono diventare quindi un’occasione per includere nella storia della grafica casi studio ed elaborati che, seppur non pionieristici, sono entrati nella memoria collettiva di un’intera nazione e di un pubblico internazionale, quello sportivo.

Inoltre, è emblematico che siano i loghi della golden age della corporate identity – di quel momento in cui gli auspici modernisti si traducevano in più o meno meticolosi manuali di identità visiva – a essere campionati, modificati, memificati; proprio gli elaborati che più di altri nella storia del graphic design hanno contribuito a raccontare in maniera autoreferenziale il grafico come regista di architetture complesse, come artefice della coordinazione visiva di un marchio, come figura capace di prevedere e controllare la vita e la diffusione di un logo nella società. I grafici attraverso i manuali di identità visiva si auspicavano di normare la diffusione dei loghi in differenti contesti tentando di evitare possibili errori di applicazione da parte degli utenti finali. Il meme-dernismo ripescando e citando i trademark aziendali finisce per minare la graniticità dei manuali di corporate identity, riportando invece l’attenzione sul ruolo degli utenti finali nella vita di un artefatto visivo.

Rip-off come quelli realizzati da Lack of Guidance, Iuter e No Kiddin’ NYC con il marchio FIGC di Patrizia Pataccini sono utili per guardare alla storia della grafica e in particolare alla sua stagione modernista con altri occhi: sganciandosi dai parametri estetici “da grafici” o da quella che Steven Heller chiama “lente formale”,[11] evitando di spendere altro tempo nella ricerca disperata di autori e nella mitizzazione di designer e concentrandosi invece sulla diffusione degli artefatti, sulla loro permanenza nella memoria collettiva, sul ruolo dell’utente finale nel tenerli in vita e nel riverberarli.

Suona strano auspicare il superamento del concetto di autorialità a partire da un caso studio realizzato da una designer che finora non è stata neppure raccontata nelle storie della grafica, – sorte comune a numerose professioniste donne precedenti, contemporanee e successive a Patrizia Pataccini.[12] D’altra parte, raccontare le vicende della designer allargando l’inquadratura può offrire uno sguardo più completo e trasversale anche sulla sua autorialità. Detto in altre parole: a cosa servirebbe parlare del rigore progettuale di Patrizia Pataccini senza parlare del rigore di Roberto Baggio o di quello di Luigi Di Biagio?

PROGETTO GRAFICO n°

Giugno / 2019

Nel luglio 1991, a un anno dall’“estate italiana” cantata da Edoardo Bennato e Gianna Nannini, la rivista di graphic design “Linea Grafica” mostra per la prima volta sulle sue pagine la nuova identità visiva della Federazione Italiana Giuoco Calcio – FIGC – tracciando un ritratto della sua autrice: Patrizia Pataccini. Nell’articolo si descrive la designer di base a Milano come «una giovane signora che non rassomiglia in alcun modo al modello di donna-manager che gli Anni ‘80 ci hanno fornito come archetipo della nuova professionalità femminile, né tantomeno al suo contrario, cioè all’artista svagata e sognatrice i cui progetti siano connotati da una forte riconoscibilità; si presenta invece come un’efficiente professionista che non indulge, neppure nell’aspetto, a vezzi superflui.»[1]

Patrizia Pataccini nasce a Milano nel 1951. Frequenta il corso di scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Brera e, dopo una breve parentesi londinese, rientra nel capoluogo lombardo dove comincia a collaborare con lo studio GPI Cortesi, al cui interno presto diventa responsabile del settore grafico.[2] Nel corso degli anni si specializza progressivamente nella costruzione di corporate identity complesse, focalizzandosi in particolare sullo studio di applicazioni del marchio nello spazio, di archigrafie e di sistemi di wayfinding.[3]

Al concorso indetto dalla FIGC per la realizzazione di una nuova corporate identity alle soglie del nuovo campionato europeo, Patrizia Pataccini si presenta con una “i” stilizzata, concepita come sintesi della parola “Italia”. Il marchio proposto dalla designer è composto da un rettangolo inclinato, diviso orizzontalmente in tre fasce: una a fondo azzurro occupata da tre stelle gialle, una a fondo bianco con la dicitura della Federazione di colore azzurro e in carattere sans serif – in due varianti: per esteso e sintetizzata con acronimo –, una con il tricolore italiano. Completa il marchio il puntino sulla “i”, un cerchio azzurro posto in alto a sinistra.

Come era già accaduto nel 1984 con il restyling dell’identità visiva FIGC – invariata fino ai mondiali Italia 90 – anche in questo caso il nuovo logo abbandona l’identificazione dello stemma con lo scudo tricolore. Inoltre, il marchio proposto da Patrizia Pataccini, come quello subito precedente, mantiene l’inclinazione orizzontale della bandiera e insieme dell’apparato tipografico, accentuando il dinamismo complessivo della “i” italic.

Per quanto del logo si parli nel 1991 in quella che allora era la principale rivista italiana di graphic design e nonostante la “i” disegnata dalla designer rimanga per nove anni sulle maglie degli Azzurri – per un totale di due europei e due mondiali persi ai rigori – non si hanno tracce né del percorso professionale di Patrizia Pataccini né della sua corporate identity per la FIGC nelle storie della grafica. Solo sul sito Museodelmarchio.it, nel focus dedicato all’evoluzione del logo della Federcalcio, si fa accenno all’autrice e al suo progetto, riportando però il cognome sbagliato: “Pattacini” anziché Pataccini.[4]

Di recente il logo FIGC usato dalla nazionale italiana dal 1991 al 2000, è ricomparso quasi in simultanea su alcuni capi di abbigliamento prodotti da due brand diversi. Il marchio Lack of Guidance, di base ad Amsterdam e interessato all’ibridazione tra calcio e moda, ha proposto una maglia a maniche lunghe grigio melange chiamata Azzurri in cui, al posto della scritta “Federazione Italiana Giuoco Calcio”, compare il nome del brand composto su due righe.[5]

Quasi contemporaneamente la joint venture tra il marchio milanese Iuter e No Kiddin’ NYC, ha dato vita a una capsule collection composta da una maglia da calcio e da una tuta sportiva, entrambe ispirate dalla divisa degli Azzurri al mondiale di calcio statunitense del 1994.[6] In questo caso il marchio della FIGC disegnato da Patrizia Pataccini viene riproposto con cinque stelle anziché tre e con la dicitura che, al posto di quella ufficiale della Federcalcio, sulla maglia diventa “Campioni del mondo” e sulla tuta è “Iuter”.[7]

Negli ultimi anni si è assisto a una frequente osmosi tra calcio e moda: squadre che presentano le divise stagionali utilizzando il lessico e i canali del fashion, maglie sold-out prima ancora di essere indossate dai giocatori sul campo – si veda il caso della divisa Nigeriana prodotta da Nike per i mondiali russi dello scorso anno –, marchi sportwear che lanciano capsule collection firmate insieme a colossi dell’alta moda o a brand streetwear. Come, tra gli altri, ha affermato “i-D” a proposito dell’eredità di Umbro,[8] Il successo del fenomeno del “football fashion” deve certamente molto a una spiccata indole nostalgica. Proprio questo sentimento diventa determinante nel recupero di elaborati dagli archivi storici o dalla memoria storica come è accaduto al logo di Patrizia Pataccini. Per quanto neppure i brand sopra citati menzionino in alcun modo l’autrice, almeno permettono al suo marchio FIGC di rivivere nella memoria collettiva, di presentarsi alle nuove generazioni e concede ai designer grafici e agli storici di riscoprire un elaborato in gran parte dimenticato dalle storie di settore e di interrogarsi sulle ragioni di tale oblio.

Ciò che è interessante notare a partire dai capi d’abbigliamento di cui sopra è che un progetto trascurato dalla storiografia del graphic design possa essere “salvato” da un’attitudine in voga nel mondo fashion, in particolare negli ultimi anni: quella dei rip-off di elaborati della comunicazione visiva avvertiti come parte di una cultura popolare, di una storia collettiva. I loghi in primis sono tornati a essere centrali nelle collezioni di moda e la loro “memificazione” – il loro essere citati come meme, invitando il fruitore a interpretarne tanto il riferimento originario quanto il nuovo messaggio – è diventata una maniera per riappropriarsi di simboli di storie passate e di immaginari condivisi. Marchi di alta moda, aziende di sportwear o streetwear sempre più spesso hanno guardato alla golden age della corporate identity degli anni sessanta-novanta come a un ricco bacino a cui attingere. Tuttavia, la capacità di “campionare” tali artefatti non appartiene solo alla moda oggi. A conferma di ciò, nel 2017 la crew milanese di skater Chef Family GSF, riproponendo alcuni simboli storici del calcio azzurro degli anni novanta attraverso il proprio merchandising,[9] ha incluso anche il logo di Patrizia Pataccini tutt’oggi presente nell’header del sito web del collettivo. Effettivamente, dai fumetti alla trap, dalle fanzine illustrate all’arte, questo trend è riscontrabile in diversi contesti e sembra essere la naturale evoluzione tanto della nostalgia vaporwave quanto della meme-revolution attiva sui social.

Se da un lato questa tendenza a decontestualizzare e a citare insita nella moda invita a guardare alla storia delle comunicazioni visive da un punto di vista inedito, dall’altro i casi di memificazione sono accomunati dalla rinuncia ad approfondire e raccontare l’autorialità di molti dei loghi riproposti. D’altronde, l’atteggiamento opposto, quello cioè di concentrarsi sul racconto degli autori e dei singoli designer spesso ha reso le storie della grafica prive dell’analisi della dialettica tra graphic design e società. Da questo punto di vista, anzi, proprio la rinuncia ad accreditare l’autorialità di tali layout grafici fa riflettere. Se la storia della grafica – come pure il panorama dei graphic designer più in generale – si è mostrata spesso più propensa a evidenziare e incensare figure “eroiche” e a canonizzare correnti e stili formali più che ad approfondire la vita degli elaborati visivi e il loro rapporto con gli utenti finali e la società, l’approccio proposto dai marchi di moda in primis ci invita a leggere la storia del graphic design in maniera meno autoriale.[10]

All’autorialità come valore discriminante per salvare o dimenticare un progetto grafico, questo approccio sembra preferire il fattore della permanenza nella memoria collettiva. In questo modo, attraverso quello che si potrebbe definire meme-dernismo – cioè la capacità di trasformare in meme identità visive o elaborati appartenenti nella gran parte dei casi alla lunga stagione del modernismo nel graphic design – marchi come Lack of Guidance, Iuter e No Kiddin’ NYC riscoprono sia progetti già analizzati dalla storiografia del design sia storie totalmente dimenticate. I rip-off possono diventare quindi un’occasione per includere nella storia della grafica casi studio ed elaborati che, seppur non pionieristici, sono entrati nella memoria collettiva di un’intera nazione e di un pubblico internazionale, quello sportivo.

Inoltre, è emblematico che siano i loghi della golden age della corporate identity – di quel momento in cui gli auspici modernisti si traducevano in più o meno meticolosi manuali di identità visiva – a essere campionati, modificati, memificati; proprio gli elaborati che più di altri nella storia del graphic design hanno contribuito a raccontare in maniera autoreferenziale il grafico come regista di architetture complesse, come artefice della coordinazione visiva di un marchio, come figura capace di prevedere e controllare la vita e la diffusione di un logo nella società. I grafici attraverso i manuali di identità visiva si auspicavano di normare la diffusione dei loghi in differenti contesti tentando di evitare possibili errori di applicazione da parte degli utenti finali. Il meme-dernismo ripescando e citando i trademark aziendali finisce per minare la graniticità dei manuali di corporate identity, riportando invece l’attenzione sul ruolo degli utenti finali nella vita di un artefatto visivo.

Rip-off come quelli realizzati da Lack of Guidance, Iuter e No Kiddin’ NYC con il marchio FIGC di Patrizia Pataccini sono utili per guardare alla storia della grafica e in particolare alla sua stagione modernista con altri occhi: sganciandosi dai parametri estetici “da grafici” o da quella che Steven Heller chiama “lente formale”,[11] evitando di spendere altro tempo nella ricerca disperata di autori e nella mitizzazione di designer e concentrandosi invece sulla diffusione degli artefatti, sulla loro permanenza nella memoria collettiva, sul ruolo dell’utente finale nel tenerli in vita e nel riverberarli.

Suona strano auspicare il superamento del concetto di autorialità a partire da un caso studio realizzato da una designer che finora non è stata neppure raccontata nelle storie della grafica, – sorte comune a numerose professioniste donne precedenti, contemporanee e successive a Patrizia Pataccini.[12] D’altra parte, raccontare le vicende della designer allargando l’inquadratura può offrire uno sguardo più completo e trasversale anche sulla sua autorialità. Detto in altre parole: a cosa servirebbe parlare del rigore progettuale di Patrizia Pataccini senza parlare del rigore di Roberto Baggio o di quello di Luigi Di Biagio?