PROGETTO GRAFICO n°

Giugno / 2022

Perdere il corpo.

“Adesso, in questo mentre sospeso tra un prima e un dopo, i nostri corpi paiono perdere consistenza. Sono privati del confronto, della vita intorno, dei luoghi d’incontro dove si esercita la promiscuità, del desiderio che palpita nel guardare e nel farsi guardare.” (Frisa, 2020, p.92). Corpi censurati poiché legati alla loro irriducibile sostanza organica, fatta di fluidi, respiro, tatto, rappresentativi di una perdita. Un distacco percepito come imposto, poiché causato da una pandemia inaspettata quanto spietata nel suo procedere lento. Il corpo, questo sconosciuto, il cui viso è nascosto a metà, sempre più invisibile nella sua interezza, si frammenta, si fa in mille pezzi, gli uni dagli altri separati. Schegge di sguardi si incrociano per le strade, mezzi busti con mani e viso sono visibili solo dietro ai monitor, ritagli selezionati di ciò che vogliamo mostrare sono esibiti attraverso i nostri cellulari – questi ultimi, feticci di un alterego virtuale che non si stacca da dosso.

La perdita del corpo pubblico spesso coincide con quello privato, come se la dimensione esteriorizzata fosse una delle ragioni prime per la sua cura, e conseguente ostentazione. Il mutilare un tale territorio di confronto ci pone in una condizione del tutto innaturale e indecifrabile. Un’esperienza estranea dalla considerazione che Heidegger fa del corpo. “L’uomo non ha un corpo e non è un corpo, bensì vive il suo corpo-vivente. […]. Una testa non è un corpo dotato di occhi e orecchie, bensì è un fenomeno del corpo-vivente, contrassegnato dall’essere-nel-mondo che guarda e ascolta.” (Heidegger, 1964, pp.34-35). 

Da qui, la privazione dell’approccio sensoriale ci spinge, per compensazione, in un’altra dimensione, quella del virtuale. Una dimensione, tuttavia, oltrepassata, poiché già integrata e assorbita dentro le nostre vite. Conseguenza del passaggio digitale, il postdigitale si configura, dunque, come lo scenario operativo corrente: uno spazio dove la transizione è avvenuta, un luogo che accoglie l’ibrido e il mescolarsi effettivo tra fisico e immateriale. “Postdigital pertains […] the interplay between digital, biological, cultural, and spiritual systems, between cyberspace and real space, between embodied media and mixed reality in social and physical communication, between high tech and high touch experiences, […]” (Alexenberg, 2011, p.11). 

La perdita dei sensi subita trova cosi una sorta di bilanciamento in una riappropriazione del virtuale, e in particolar modo nell’uso di social media, quali Instagram e SnapChat, che accolgono le sperimentazioni più radicali messe a disposizione dalla grafica 3D e in real time. Da questa prospettiva, la censura del corpo spinge la tecnologia al ruolo di protagonista, per una ricostruzione del rapporto di reciprocità con l’altro e la riscoperta di spazi di condivisione alternativi. 

Pratiche digitali di metamorfosi e rilevazione sensoriale.

Dispositivi che permettono nuove percezioni sinestetiche, wearables che accrescono determinate sensorialità, relazioni digitali che trascendono la corporeità poiché dilatata, trasfigurata: la cultura del progetto grafico adotta la figura umana come strumento per una sua indagine radicale. I filtri digitali ne esaminano e reinterpretano le espressioni facciali, i valori estetici desiderati, i dettagli di ogni singolo individuo, l’ambiente circostante, secondo una rinnovata interazione tra corpo organico e rappresentazione artificiale. Il corpo si reinventa nell’amplificazione del suo immaginario virtuale. In una dimensione a-spaziale e a-temporale, come afferma Foucault, “Il corpo è il punto zero del mondo; laddove le vie e gli spazi si incrociano, il corpo non è da nessuna parte: è al centro del mondo, questo piccolo nucleo utopico a partire da quale sogno, parlo, procedo, immagino, percepisco le cose al loro posto e anche le nego attraverso il potere infinito delle utopie che immagino.” (Foucault, 2004, pp. 42-43). Da sempre, attraverso la sua immagine, le utopie del corpo delineano scenari dove l’uomo costantemente tenta di sfidare i suoi limiti. 

Nell’ambito del progetto grafico, l’isolamento causato dal covid-19 non ha fatto altro che accentuare la necessità di tali esplorazioni, e a partire da queste vale la pena soffermarsi su alcuni autori che hanno individuato, attraverso i social, un nuovo territorio di ricerca. Tra i diversi creativi che operano in questo campo, emergono la make up artist Ines Alpha, la creatrice di filtri Johanna Jaskowska, l’interactive designer Aaron Jablonski. Si tratta di designer transdisciplinari che travalicano i confini della grafica stessa, mischiandola con la visual art, la modellazione 3D e la motion graphic, e la cui scomposizione della realtà si compie sempre al confine tra fisico e virtuale, corporeo e incorporeo. 

Con il fenomeno dei social media – amplificatosi ancora di più a causa alle ristrette condizioni di libertà individuale -, il focus sul volto aumenta esponenzialmente, fino a diventare il primo agente catalizzatore della rappresentazione del sé. Il volto, reale o fittizio, si configura cosi come campo d’indagine per un make-up che non si realizza solo per mezzo della tecnica cosmetica, ma anche attraverso l’interazione personale con i propri dispositivi. In questa direzione della ricerca, Ines Alpha progetta colori e forme attraverso la costruzione tridimensionale di patch indossabili e makeup 3d, e apre la strada ad un gioco illusorio fatto di mondi fantastici che chiunque può indossare attraverso i propri profili in rete. Le sue maschere This is human, ARmakeup for Dior, Oyster moisture e Monogram wave rappresentano un universo ambiguo dove umano e animale si confondono, scambiandosi i connotati grazie a estensioni fluttuanti e gelatinose. (Fig.1, 2, 3). 

“A new cult is rising. Our bodies are becoming fluid, our money decentralized, new powers are being formed. Slowly we are moving into a non-dual operating system. […] What can a body be when it is freed from physical restraints? What does identity mean when there are endless bits and bytes to express it? […] We look for a connection in technology. It is our new religion.” (Jaskowska, 2020). Al confine tra grafica 3D e visual art, Johanna Jaskowska crea filtri concettuali che agiscono sul corpo e i sensi in maniera provocatoria e riflessiva. Tra questi: Matter è un filtro che influisce sullo spazio esterno lasciando scie di energia che riflettono i confini del proprio corpo fisico; SelfScan funziona come una sorta di scanner digitale che restituisce l’immagine desiderata a partire da una linea orizzontale fissa che la blocca e ridisegna nel movimento; Beauty 3000 genera sulla pelle un sottilissimo film traslucido che crea iridescenze e punti luce; Zoufriya, infine, lavora solo sugli occhi, annullandone lo sguardo mediante un riempimento nero che ipnotizza e disorienta. (Fig.4, 5, 6). 

Nel dialogo tra individuo e spazio, attraverso una serie di espedienti tecnici come creative coding (VR/AR), glitch e algorithmic data, Aaron Jablonski mette in scena diverse esperienze aumentate che influenzano la percezione degli ambienti naturali in cui è possibile immergersi. Tra le sperimentazioni più interessanti, oltre alle maschere virtuali che giocano sulla tassellazione del viso attraverso forze centrifuge che lo moltiplicano verso l’esterno – Projection, One, Polyface, Face Void -, troviamo diversi filtri di augmented reality. Le modalità d’utilizzo sono ambientate in foreste, montagne, scenari selvaggi, dove una natura primordiale entra in contatto con diverse transizioni mimetiche e bugs che confondono l’essere umano con lo spazio circostante.  (Fig.7, 8, 9). 

Chiamare in causa il corpo come stato di presenza, nel suo ruolo di strumento di indagine del progetto, significa restituirgli tutta la carica energetica e il peso simbolico che porta con sé. È dal corpo smarrito che emergono, reinterpretati, nuovi valori, espressioni, gestualità, sensazioni, secondo una rinnovata interazione tra interno e esterno, in un continuo gioco di rimandi tra la proiezione del sé e la relazione con l’altro, poiché “[…] il virtuale recupera la nozione di iper-realtà. La realtà virtuale, perfettamente omogenizzata, numerizzata, “operazionalizzata”, si sostituisce all’altra perché perfetta, controllabile e non contraddittoria.” (Baudrillard, 2002, p.41). 

Da un punto di vista concettuale, è opportuno sottolineare come l’approccio postdigitale tenti un superamento del conflitto che esiste tra la solidità del mondo fisico e la fluidità dell’elettronica attraverso una progettazione capace di esplorare il digitale anche attraverso gli aspetti più sensibili del sentire umano: l’acquisizione di corpi perfetti, magnetici, immersi nella natura si compie cosi proprio grazie alla tecnologia, ma in maniera del tutto immaginaria, simulata in un’altrove che confonde i piani di appartenenza. 

Il corpo-vivente attraverso il display. 

Aprendo l’orizzonte della ricerca visiva in un’ottica di manipolazione postdigitale, le tendenze illustrate proiettano la costruzione dell’immagine di sé in una dimensione di mix media, tra tangibile e virtuale, alla riscoperta di inedite possibilità di espressione. In quanto linguaggi emergenti, estremamente impattanti nell’ambito dei social media, riflettere su culture estetiche di questo tipo ci aiuta a comprendere quali possono essere le evoluzioni future nel rapporto tra uomo e tecnologia, e della grafica in combinazione al digitale. 

Nel ritornare all’importanza della nostra fisicità – che oggi appare cosi distante – uno degli scenari più interessanti consiste, dunque, nell’adozione della corporeità come singolare punto di partenza e arrivo del progetto. La tangibilità della nostra esistenza transita cosi attraverso filtri IG e ambiti come l’augumented reality, per un’esplorazione sia speculativa che visiva dell’essere umano, completamente integrato in una dimensione ibrida. Un’interpretazione di tale fusione ci viene fornita da Florian Cramer che la descrive non come la fine del digitale, ma come una sua evoluzione progressiva, (Cramer, 2014, p.13) un processo logico che avvicina gli uomini ad una maggiore consapevolezza della loro contemporaneità. “In ogni trasformazione, dai fori che i primitivi praticavano nelle labbra, nelle orecchie, nel naso, nei genitali, agli abiti, gli ornamenti, ai gioielli, l’uomo, unico tra gli animali, non ha mai smesso di giocare col proprio corpo, nel tentativo continuo di superarne i limiti e la conseguente rigidità dell’immagine.” (Galimberti, 1983, p. 326). 

La necessità di riportare il corpo organico al centro della tecnologia e dei suoi processi di trasformazione va intesa, dunque, come la volontà di una partecipazione all’evoluzione della società, per una riontologizzazione del suo status quo e l’esplorazione di nuovi modi d’essere e aprirsi al mondo. La prospettiva corporea nel senso del vivente – il cosiddetto Leib tedesco di Heidegger – viene cosi ad essere rappresentata oggi dall’emergere di quest’insieme di pratiche miste che, sebbene siano percepibili solo attraverso un display, nel loro rinsaldarsi al corpo, esprimono ancora una volta quella necessità del sentire, profondamente umana. 

Bibliografia

Alexenberg, M. (2011). The Future of Art in a Postdigital Age. Bristol: Intellect Ltd.
Baudrillard, J. (2002). Il virtuale. In Parole chiave. Roma: Armando Editore. 
Florian, C. (2014). What is Postdigital? APRJA Journal Vol.3 Post-Digital Research. Aarhus: Aarhus University and Transmediale/Art and Digital Culture.
Frisa, M.L. (2020). La censura del nostro corpo pubblico. Flash Art n.349 – giugno/agosto 2020. Milano: Giancarlo Politi Editore.
Foucault, M. (2004). (ed.it. 2020). Il corpo utopico. In Utopie Eterotopie. Napoli: Cronopio. 
Galimberti U. (1983). Il corpo e la sua immagine. In Il corpo. Milano: Feltrinelli. 
Heidegger, M. (1964). (ed.it.2000). Corpo e spazio. Genova: Il Melangolo. 
Jaskowska, J. (2020). Let’s flirt with technology. Retreived from: https://www.instagram.com/johwska/

PROGETTO GRAFICO n°

Giugno / 2022

Perdere il corpo.

“Adesso, in questo mentre sospeso tra un prima e un dopo, i nostri corpi paiono perdere consistenza. Sono privati del confronto, della vita intorno, dei luoghi d’incontro dove si esercita la promiscuità, del desiderio che palpita nel guardare e nel farsi guardare.” (Frisa, 2020, p.92). Corpi censurati poiché legati alla loro irriducibile sostanza organica, fatta di fluidi, respiro, tatto, rappresentativi di una perdita. Un distacco percepito come imposto, poiché causato da una pandemia inaspettata quanto spietata nel suo procedere lento. Il corpo, questo sconosciuto, il cui viso è nascosto a metà, sempre più invisibile nella sua interezza, si frammenta, si fa in mille pezzi, gli uni dagli altri separati. Schegge di sguardi si incrociano per le strade, mezzi busti con mani e viso sono visibili solo dietro ai monitor, ritagli selezionati di ciò che vogliamo mostrare sono esibiti attraverso i nostri cellulari – questi ultimi, feticci di un alterego virtuale che non si stacca da dosso.

La perdita del corpo pubblico spesso coincide con quello privato, come se la dimensione esteriorizzata fosse una delle ragioni prime per la sua cura, e conseguente ostentazione. Il mutilare un tale territorio di confronto ci pone in una condizione del tutto innaturale e indecifrabile. Un’esperienza estranea dalla considerazione che Heidegger fa del corpo. “L’uomo non ha un corpo e non è un corpo, bensì vive il suo corpo-vivente. […]. Una testa non è un corpo dotato di occhi e orecchie, bensì è un fenomeno del corpo-vivente, contrassegnato dall’essere-nel-mondo che guarda e ascolta.” (Heidegger, 1964, pp.34-35). 

Da qui, la privazione dell’approccio sensoriale ci spinge, per compensazione, in un’altra dimensione, quella del virtuale. Una dimensione, tuttavia, oltrepassata, poiché già integrata e assorbita dentro le nostre vite. Conseguenza del passaggio digitale, il postdigitale si configura, dunque, come lo scenario operativo corrente: uno spazio dove la transizione è avvenuta, un luogo che accoglie l’ibrido e il mescolarsi effettivo tra fisico e immateriale. “Postdigital pertains […] the interplay between digital, biological, cultural, and spiritual systems, between cyberspace and real space, between embodied media and mixed reality in social and physical communication, between high tech and high touch experiences, […]” (Alexenberg, 2011, p.11). 

La perdita dei sensi subita trova cosi una sorta di bilanciamento in una riappropriazione del virtuale, e in particolar modo nell’uso di social media, quali Instagram e SnapChat, che accolgono le sperimentazioni più radicali messe a disposizione dalla grafica 3D e in real time. Da questa prospettiva, la censura del corpo spinge la tecnologia al ruolo di protagonista, per una ricostruzione del rapporto di reciprocità con l’altro e la riscoperta di spazi di condivisione alternativi. 

Pratiche digitali di metamorfosi e rilevazione sensoriale.

Dispositivi che permettono nuove percezioni sinestetiche, wearables che accrescono determinate sensorialità, relazioni digitali che trascendono la corporeità poiché dilatata, trasfigurata: la cultura del progetto grafico adotta la figura umana come strumento per una sua indagine radicale. I filtri digitali ne esaminano e reinterpretano le espressioni facciali, i valori estetici desiderati, i dettagli di ogni singolo individuo, l’ambiente circostante, secondo una rinnovata interazione tra corpo organico e rappresentazione artificiale. Il corpo si reinventa nell’amplificazione del suo immaginario virtuale. In una dimensione a-spaziale e a-temporale, come afferma Foucault, “Il corpo è il punto zero del mondo; laddove le vie e gli spazi si incrociano, il corpo non è da nessuna parte: è al centro del mondo, questo piccolo nucleo utopico a partire da quale sogno, parlo, procedo, immagino, percepisco le cose al loro posto e anche le nego attraverso il potere infinito delle utopie che immagino.” (Foucault, 2004, pp. 42-43). Da sempre, attraverso la sua immagine, le utopie del corpo delineano scenari dove l’uomo costantemente tenta di sfidare i suoi limiti. 

Nell’ambito del progetto grafico, l’isolamento causato dal covid-19 non ha fatto altro che accentuare la necessità di tali esplorazioni, e a partire da queste vale la pena soffermarsi su alcuni autori che hanno individuato, attraverso i social, un nuovo territorio di ricerca. Tra i diversi creativi che operano in questo campo, emergono la make up artist Ines Alpha, la creatrice di filtri Johanna Jaskowska, l’interactive designer Aaron Jablonski. Si tratta di designer transdisciplinari che travalicano i confini della grafica stessa, mischiandola con la visual art, la modellazione 3D e la motion graphic, e la cui scomposizione della realtà si compie sempre al confine tra fisico e virtuale, corporeo e incorporeo. 

Con il fenomeno dei social media – amplificatosi ancora di più a causa alle ristrette condizioni di libertà individuale -, il focus sul volto aumenta esponenzialmente, fino a diventare il primo agente catalizzatore della rappresentazione del sé. Il volto, reale o fittizio, si configura cosi come campo d’indagine per un make-up che non si realizza solo per mezzo della tecnica cosmetica, ma anche attraverso l’interazione personale con i propri dispositivi. In questa direzione della ricerca, Ines Alpha progetta colori e forme attraverso la costruzione tridimensionale di patch indossabili e makeup 3d, e apre la strada ad un gioco illusorio fatto di mondi fantastici che chiunque può indossare attraverso i propri profili in rete. Le sue maschere This is human, ARmakeup for Dior, Oyster moisture e Monogram wave rappresentano un universo ambiguo dove umano e animale si confondono, scambiandosi i connotati grazie a estensioni fluttuanti e gelatinose. (Fig.1, 2, 3). 

“A new cult is rising. Our bodies are becoming fluid, our money decentralized, new powers are being formed. Slowly we are moving into a non-dual operating system. […] What can a body be when it is freed from physical restraints? What does identity mean when there are endless bits and bytes to express it? […] We look for a connection in technology. It is our new religion.” (Jaskowska, 2020). Al confine tra grafica 3D e visual art, Johanna Jaskowska crea filtri concettuali che agiscono sul corpo e i sensi in maniera provocatoria e riflessiva. Tra questi: Matter è un filtro che influisce sullo spazio esterno lasciando scie di energia che riflettono i confini del proprio corpo fisico; SelfScan funziona come una sorta di scanner digitale che restituisce l’immagine desiderata a partire da una linea orizzontale fissa che la blocca e ridisegna nel movimento; Beauty 3000 genera sulla pelle un sottilissimo film traslucido che crea iridescenze e punti luce; Zoufriya, infine, lavora solo sugli occhi, annullandone lo sguardo mediante un riempimento nero che ipnotizza e disorienta. (Fig.4, 5, 6). 

Nel dialogo tra individuo e spazio, attraverso una serie di espedienti tecnici come creative coding (VR/AR), glitch e algorithmic data, Aaron Jablonski mette in scena diverse esperienze aumentate che influenzano la percezione degli ambienti naturali in cui è possibile immergersi. Tra le sperimentazioni più interessanti, oltre alle maschere virtuali che giocano sulla tassellazione del viso attraverso forze centrifuge che lo moltiplicano verso l’esterno – Projection, One, Polyface, Face Void -, troviamo diversi filtri di augmented reality. Le modalità d’utilizzo sono ambientate in foreste, montagne, scenari selvaggi, dove una natura primordiale entra in contatto con diverse transizioni mimetiche e bugs che confondono l’essere umano con lo spazio circostante.  (Fig.7, 8, 9). 

Chiamare in causa il corpo come stato di presenza, nel suo ruolo di strumento di indagine del progetto, significa restituirgli tutta la carica energetica e il peso simbolico che porta con sé. È dal corpo smarrito che emergono, reinterpretati, nuovi valori, espressioni, gestualità, sensazioni, secondo una rinnovata interazione tra interno e esterno, in un continuo gioco di rimandi tra la proiezione del sé e la relazione con l’altro, poiché “[…] il virtuale recupera la nozione di iper-realtà. La realtà virtuale, perfettamente omogenizzata, numerizzata, “operazionalizzata”, si sostituisce all’altra perché perfetta, controllabile e non contraddittoria.” (Baudrillard, 2002, p.41). 

Da un punto di vista concettuale, è opportuno sottolineare come l’approccio postdigitale tenti un superamento del conflitto che esiste tra la solidità del mondo fisico e la fluidità dell’elettronica attraverso una progettazione capace di esplorare il digitale anche attraverso gli aspetti più sensibili del sentire umano: l’acquisizione di corpi perfetti, magnetici, immersi nella natura si compie cosi proprio grazie alla tecnologia, ma in maniera del tutto immaginaria, simulata in un’altrove che confonde i piani di appartenenza. 

Il corpo-vivente attraverso il display. 

Aprendo l’orizzonte della ricerca visiva in un’ottica di manipolazione postdigitale, le tendenze illustrate proiettano la costruzione dell’immagine di sé in una dimensione di mix media, tra tangibile e virtuale, alla riscoperta di inedite possibilità di espressione. In quanto linguaggi emergenti, estremamente impattanti nell’ambito dei social media, riflettere su culture estetiche di questo tipo ci aiuta a comprendere quali possono essere le evoluzioni future nel rapporto tra uomo e tecnologia, e della grafica in combinazione al digitale. 

Nel ritornare all’importanza della nostra fisicità – che oggi appare cosi distante – uno degli scenari più interessanti consiste, dunque, nell’adozione della corporeità come singolare punto di partenza e arrivo del progetto. La tangibilità della nostra esistenza transita cosi attraverso filtri IG e ambiti come l’augumented reality, per un’esplorazione sia speculativa che visiva dell’essere umano, completamente integrato in una dimensione ibrida. Un’interpretazione di tale fusione ci viene fornita da Florian Cramer che la descrive non come la fine del digitale, ma come una sua evoluzione progressiva, (Cramer, 2014, p.13) un processo logico che avvicina gli uomini ad una maggiore consapevolezza della loro contemporaneità. “In ogni trasformazione, dai fori che i primitivi praticavano nelle labbra, nelle orecchie, nel naso, nei genitali, agli abiti, gli ornamenti, ai gioielli, l’uomo, unico tra gli animali, non ha mai smesso di giocare col proprio corpo, nel tentativo continuo di superarne i limiti e la conseguente rigidità dell’immagine.” (Galimberti, 1983, p. 326). 

La necessità di riportare il corpo organico al centro della tecnologia e dei suoi processi di trasformazione va intesa, dunque, come la volontà di una partecipazione all’evoluzione della società, per una riontologizzazione del suo status quo e l’esplorazione di nuovi modi d’essere e aprirsi al mondo. La prospettiva corporea nel senso del vivente – il cosiddetto Leib tedesco di Heidegger – viene cosi ad essere rappresentata oggi dall’emergere di quest’insieme di pratiche miste che, sebbene siano percepibili solo attraverso un display, nel loro rinsaldarsi al corpo, esprimono ancora una volta quella necessità del sentire, profondamente umana. 

Bibliografia

Alexenberg, M. (2011). The Future of Art in a Postdigital Age. Bristol: Intellect Ltd.
Baudrillard, J. (2002). Il virtuale. In Parole chiave. Roma: Armando Editore. 
Florian, C. (2014). What is Postdigital? APRJA Journal Vol.3 Post-Digital Research. Aarhus: Aarhus University and Transmediale/Art and Digital Culture.
Frisa, M.L. (2020). La censura del nostro corpo pubblico. Flash Art n.349 – giugno/agosto 2020. Milano: Giancarlo Politi Editore.
Foucault, M. (2004). (ed.it. 2020). Il corpo utopico. In Utopie Eterotopie. Napoli: Cronopio. 
Galimberti U. (1983). Il corpo e la sua immagine. In Il corpo. Milano: Feltrinelli. 
Heidegger, M. (1964). (ed.it.2000). Corpo e spazio. Genova: Il Melangolo. 
Jaskowska, J. (2020). Let’s flirt with technology. Retreived from: https://www.instagram.com/johwska/

PROGETTO GRAFICO n°

Giugno / 2022

Man mano che la nostra anima si concentra sugli oggetti, possiamo sentire nel nostro cuore spezzato il mondo nella sua interezza e accettare le nostre sofferenze. Ciò che rende possibile questa accettazione è custodito negli sguardi degli spettatori: non è alla bottiglia di gassosa che Kemal aveva conservato per anni vicino alla testiera del letto perché Füsun l’aveva sfiorata con le labbra, né al cuore di porcellana rotto che ci rivolgiamo, ma alla folla che c’è dietro, all’altro mondo, a un luogo fuori dal Tempo – a voi.

Orhan Pamuk, 2012[1]

In svariati progetti contemporanei di musei permanenti e mostre temporanee, i sentimenti della perdita e del lutto hanno guidato la costruzione di raccolte e di collezioni di oggetti, protagoniste di esposizioni, anche fortemente sperimentali.

In esse, la cultura materiale viene portata al centro della narrazione. L’oggetto comune, anonimo per origine, ma intimamente familiare, tangibile, in una riconosciuta capacità di evocare e di ricomporre la memoria di momenti andati in frantumi, fornisce al visitatore un’opportunità significativa di condivisione empatica, sia sul piano umano, suscitando un nucleo di sentimenti e di emozioni profonde e condivisibili, che su quello storico, individuando e avvicinando i visitatori ai principi fondamentali di convivenza di una società collaborativa. La reazione psicologica suscitata dal rapporto diretto con l’oggetto, sopravvissuto alla perdita, è per il visitatore l’inizio di un processo di riconoscimento (di catarsi e accettazione del dolore) ritrovato in un comune sentire, collettivo, universale.

Concepiti come luoghi dell’incontro e della relazione, i musei contemporanei si aprono alle comunità e alle storie individuali, perseguendo l’obiettivo di una necessaria rivoluzione culturale, che favorisca la costruzione di un terreno di dialogo e di cooperazione tra gli individui, discutendone le dimensioni etiche e indagando su come essa possa dirigersi verso la creazione di una società globale sinergica e interconnessa.

All’interno delle politiche museologiche contemporanee si assiste ad un radicale cambio di paradigma che interviene nelle scritture espositive e nelle strategie di emotional engagement. Nuove strategie di audience development[2] sottolineano l’importanza dell’accessibilità museale, descritta attraverso l’attivazione di processi progettuali coinvolgenti e partecipativi che, tramite una costruzione narrativa significativa, sappiano produrre connessioni, condivisione e consapevolezza[3].

Con pesi e sfumature diversi, una grande quantità di progetti costruiti “dal basso” costituiscono riferimenti strategici per attivare un’ampia riflessione sul significato e sul ruolo delle produzioni culturali nella contemporaneità e sull’importanza del dialogo e dell’inclusività in processi progettuali innovativi, in grado di intervenire nelle politiche del quotidiano generando effetti positivi per le persone e per le comunità.  

Intorno all’empatia sono nate numerose e nuove forme di pensiero poste alla base di molti progetti contemporanei[4]e di buone pratiche sociali, basate sulla cooperazione, all’interno di processi di produzione (e condivisione) culturale. In queste nuove prospettive di patrimonializzazione, anche interamente gestite dalle comunità, il design, quale facilitatore dialogico e relazionale, in grado di saper leggere e interpretare la complessità dei fenomeni, si trova sempre più spesso ad operare all’interno di strategie progettuali che sappiano sviluppare nuove modalità di condivisione e sappiano generare cultura e consapevolezza identitaria.

Nello scenario contemporaneo, il design può definirsi come un attivatore sociale, in grado di orientare la società al benessere collettivo promuovendo comportamenti collaborativi mediante l’attivazione di esperienze condivise[5].

In tali nuove prospettive, i musei sono a un punto di svolta per il ruolo e la rilevanza che si propongono di assumere all’interno della società contemporanea. Essi possono assumere un ruolo proattivo nella costruzione e diffusione di conoscenza, coinvolgendo il pubblico nei processi di produzione di contenuti scientifici e culturali[6] e nella costruzione di un sistema valoriale comune. 

L’ambito multidisciplinare dell’exhibition design, presente nell’interezza dei processi, interviene nella progettazione di un ambiente relazionale fortemente comunicativo, narrativo, proiettato al coinvolgimento delle persone e alla promozione di trasformazioni socio-comportamentali da diffondere in un campo d’azione comune. All’exhibition spetta il ruolo di decidere come rappresentare la storia che le collezioni raccontano, in modo da creare connessioni ed attivare relazioni e cooperazione, senza generare sovrastrutture di significato, ma ponendo al centro gli oggetti e la narrazione (salvifica) dei quali si fanno portatori.

 

Storie di oggetti, di sogni, d’amore perduti. I progetti.

Il Jüdische Museum di Berlino è il progetto capostipite di una pratica espositiva – e di rinnovate ragioni museologiche – che, facendo leva sulla capacità degli oggetti di istituire un rapporto di prossimità emotiva e di immedesimazione del visitatore con la perdita subita dalle vittime del genocidio nazista, in un processo di rispecchiamento e di conoscenza, promuove una preziosa presa di coscienza utile alla previsionalità di azioni future pacifiche e filantropiche[7].

Gli oggetti narrano le storie personali che contribuiscono ad evidenziare aspetti controversi e nascosti rispetto la storia ufficiale. Le implicazioni culturali, storiche, sociali, affettive contenute in essi li rendono strumenti dal forte grado relazionale e testimoniale, «che un giorno diranno chi siamo alle generazioni future»[8].

La vicinanza fisica ed emotiva suscitata da oggetti di uso comune, si colloca alla base di una serie di progetti contemporanei la cui missione culturale di ricordare, e nel contempo denunciare, l’orrore di violente azioni di odio e intolleranza a svantaggio di minoranze etniche, si realizza attraverso la raccolta, la conservazione e l’esposizione di collezioni di oggetti appartenuti alle vittime[9] (Fig. 1), che acquisiscono un significato straordinario[10] di speranza. Nella mostra Stories of survival: object image – memory organizzata dall’Illinois Holocaust Museum & Education Center, più di 60 oggetti personali portati in America dai sopravvissuti all’Olocausto e al genocidio in tutto il mondo (tra cui Armenia, Bosnia, Cambogia, Iraq, Ruanda, Sud Sudan e Siria) sono esposti insieme alle fotografie del documentarista Jim Lommasson (Fig. 2). Le storie scritte a mano dai sopravvissuti e dai loro familiari sono restituite graficamente in composizione con le fotografie degli oggetti in mostra; il racconto di vite strappate ad una placida quotidianità si fa più vivo; il visitatore lo sente vicino, tangibile, potenzialmente proprio.

Il progetto per un Museo, Archivio e Centro sulle migrazioni del Mediterraneo[11] di Lampedusa, nato con l’obiettivo di costituire un museo diffuso che avrebbe custodito gli oggetti recuperati dai soccorritori nei barconi in fondo al mare, nasce come «luogo di accoglienza e di riflessione per raccontare, attraverso l’archivio e i suoi materiali, le storie delle culture migranti e i processi in atto nel Mediterraneo»[12]. Nel contempo l’attività di ricerca antropologica, storica e artistica, riconosce ai reperti un valore di testimonianza storica fondamentale, attraverso cui leggere e interpretare i fenomeni migratori, entro una dimensione umana di carattere universale. Sviluppato da un team di storici dell’arte, antropologi, esperti di migrazioni, l’obiettivo di una fondazione che accogliesse le competenze delle persone migranti e le integrasse in un percorso inclusivo, coniuga l’approccio scientifico ad una dimensione politica e sociale[13]. In mostra, nella loro nudità essenziale, gli oggetti esposti sono i simboli di una materialità reputata indispensabile per poter affrontare il viaggio verso il sogno di una vita migliore. L’apertura del Museo della fiducia e del dialogo per il Mediterraneo[14], nella stessa isola, con l’intento di confrontare e «ricomporre la storia millenaria del Mediterraneo, con le sue straordinarie e variegate espressioni culturali, ma anche i suoi drammi»[15], struttura un percorso espositivo di oggetti che trova il culmine significativo in un racconto multimediale di suoni e immagini in movimento, una stanza del naufragio (Fig. 3), nella quale l’enfasi dell’esperienza della traversata, ne racconta e ne trasferisce la fatica, il rischio di chi è disposto a perdere tutto nel desiderio di trovare il futuro.

La scrittura museale di questi progetti incarna l’idea di un museo inteso quale dispositivo disciplinante, catartico, capace di neutralizzare (o convogliare come energia positiva) il portato emotivo, doloroso della perdita e della separazione, attraverso il potere degli oggetti esposti.

Situato nel palazzo barocco di Kulmer nella Città Alta di Zagabria, il Museo delle relazioni interrotte, fondato dalla produttrice cinematografica Olinka Vištica e dallo scultore Dražen Grubiši, al termine della loro storia d’amore durata quattro anni, si nutre di collezioni di oggetti donati da ex amanti[16], basandosi su un processo di patrimonializzazione interamente affidato alla comunità e alle storie individuali. Lo spazio espositivo del museo[17], in un ambiente terso e interamente bianco, espone con essenzialità la collezione dei reperti (Fig. 4). In mostra con il riferimento della data e del luogo della relazione (unico tratto biografico che li contraddistingue) gli oggetti, esclusivamente accompagnati dalle annotazioni e dai micro-racconti scritti dai donatori medesimi, divengono i protagonisti di “‘percorsi consapevoli di ’accettazione” della perdita e della separazione[18], estensibili ad un’esperienza  universale[19] (Fig. 5).

Ispirato all’omonimo romanzo di Orhan Pamuk, il Museo dell’Innocenza di Instanbul raccoglie gli oggetti ossessivamente collezionati da Kemal, in ricordo dell’amata Füsun.

Nelle piccole teche lignee che scandiscono i capitoli dell’opera letteraria, gli oggetti esposti sono in grado di rivelare emozioni e significati del tutto nuovi, grazie alla relazione che instaurano tra essi (Fig. 6).

«L’operazione concettuale condotta da Pamuk rende gli oggetti racchiusi nelle vetrine (oggetti trovati, quotidiani, non preziosi, scovati nei mercatini istanbulioti) non importanti in quanto originali ma in quanto dispositivo di narrazione»[20]. I micro-paesaggi raccontati dagli oggetti nelle teche/wunderkammer di Pamuk, entrando in risonanza con la sfera più emozionale e intima di ogni persona, affondano nel repertorio privato emotivo personale.

Nel contempo, le implicazioni culturali contenute negli oggetti divengono anche l’espediente narrativo per ricostruire il racconto significativo di un’intera nazione, della sua cultura, dei suoi usi e costumi, delle persone che la abitano. Tre tipi di impianti audio[21] presenti nel museo contribuiscono a restituire il paesaggio sonoro quotidiano della Istanbul all’epoca in cui si svolge la storia del romanzo (il sibilo di un battello a vapore, il fischietto di una guardia notturna, le voci squillanti del venditore di boza e quelle dei passanti), immergendo lo spazio espositivo del museo (e il visitatore) in un’atmosfera immersiva e coinvolgente.

«Costruiti intorno alle persone e alle loro storie, nelle quali anche gli oggetti più quotidiani acquistano forza e pregnanza»[22], i musei della contemporaneità[23] riguardano visioni e orizzonti desiderabili verso i quali muoversi, come scenari all’interno dei quali attivare processi di comprensione dell’altro, promuovere contesti di azione favorevoli all’uomo e alla comunità globale, mettendo in gioco i comportamenti culturali delle persone, la loro stessa antropologia culturale, la loro disponibilità ad aprirsi. Si tratta di obiettivi complessi, ma la sfida per riportare gli istituti museali a svolgere un ruolo di primaria importanza nella società contemporanea rende necessario interpretare e reinterpretare i processi culturali come portatori di innovazione, utilizzando, nel caso dei musei, anche le collezioni e gli oggetti per la creazione di nuovo valore e di orientamento al futuro[24].

Bibliografia

Libri

  • Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia. La corsa verso la coscienza globale nel mondo della crisi, Milano, Mondadori, 2010
  • Isabella Pezzini, Semiotica dei nuovi musei, Roma, Laterza, 2010
  • Orhan Pamuk, L’innocenza degli oggetti. Museo dell’innocenza, Istanbul, Torino, Einaudi, 2012
  • Ezio Manzini, Design, When Everybody Designs. An Introduction to Design for Social Innovation, Massachusetts, London, The MIT Press Cambridge, 2015
  • Olinka Vištica e Dražen Grubišić, Il museo delle relazioni interrotte. Ciò che resta dell’amore, in 203 oggetti, Milano, Mondadori, 2018
  • Michela Rota, Musei per la sostenibilità integrata, Milano, Editrice Bibliografica, 2019

Articoli

  • Mara Rossi, Life Behaviour Design, in «DiiD» 58/14D, 2014
  • Anna Chiara Cimoli, Musei, pregiudizi, empatia. Gettare il corpo nel dialogo in «Roots and Routes. Research on visual cultures», 2016
    https://www.roots-routes.org/musei-pregiudizi-empatia-gettare-corpo-nel-dialogoannachiara-cimoli/
  • Mara Rossi, Migliorare i comportamenti e le relazioni sociali mediante l’innovazione dei processi partecipativi driven design in «I+Diseño», Vol. 11, aprile, 2016
  • Elena Inchingolo, NUOVE PROSPETTIVE MUSEOLOGICHE: LA CULTURA COME DISPOSITIVO DI RELAZIONE ED INCLUSIVITÀ in «Il Giornale delle Fondazioni», Umberto Allemandi & C., 2018. http://www.ilgiornaledellefondazioni.com/content/nuove-prospettive-museologiche-la-cultura-come-dispositivo-di-relazione-ed-inclusivit%C3%A0
  • Maria Giovanna Mancini, Soggettività ed empatia: il Museo delle Relazioni interrotte di Zagabria in Invernizzi S., Maillet A., Villa G. C. F.  (2019), (a cura di), Dove va il museo, Centro Arti Visive Università degli Studi di Bergamo, 2019 Disponibile su http://cav.unibg.it/elephant_castle

PROGETTO GRAFICO n°

Giugno / 2022

Man mano che la nostra anima si concentra sugli oggetti, possiamo sentire nel nostro cuore spezzato il mondo nella sua interezza e accettare le nostre sofferenze. Ciò che rende possibile questa accettazione è custodito negli sguardi degli spettatori: non è alla bottiglia di gassosa che Kemal aveva conservato per anni vicino alla testiera del letto perché Füsun l’aveva sfiorata con le labbra, né al cuore di porcellana rotto che ci rivolgiamo, ma alla folla che c’è dietro, all’altro mondo, a un luogo fuori dal Tempo – a voi.

Orhan Pamuk, 2012[1]

In svariati progetti contemporanei di musei permanenti e mostre temporanee, i sentimenti della perdita e del lutto hanno guidato la costruzione di raccolte e di collezioni di oggetti, protagoniste di esposizioni, anche fortemente sperimentali.

In esse, la cultura materiale viene portata al centro della narrazione. L’oggetto comune, anonimo per origine, ma intimamente familiare, tangibile, in una riconosciuta capacità di evocare e di ricomporre la memoria di momenti andati in frantumi, fornisce al visitatore un’opportunità significativa di condivisione empatica, sia sul piano umano, suscitando un nucleo di sentimenti e di emozioni profonde e condivisibili, che su quello storico, individuando e avvicinando i visitatori ai principi fondamentali di convivenza di una società collaborativa. La reazione psicologica suscitata dal rapporto diretto con l’oggetto, sopravvissuto alla perdita, è per il visitatore l’inizio di un processo di riconoscimento (di catarsi e accettazione del dolore) ritrovato in un comune sentire, collettivo, universale.

Concepiti come luoghi dell’incontro e della relazione, i musei contemporanei si aprono alle comunità e alle storie individuali, perseguendo l’obiettivo di una necessaria rivoluzione culturale, che favorisca la costruzione di un terreno di dialogo e di cooperazione tra gli individui, discutendone le dimensioni etiche e indagando su come essa possa dirigersi verso la creazione di una società globale sinergica e interconnessa.

All’interno delle politiche museologiche contemporanee si assiste ad un radicale cambio di paradigma che interviene nelle scritture espositive e nelle strategie di emotional engagement. Nuove strategie di audience development[2] sottolineano l’importanza dell’accessibilità museale, descritta attraverso l’attivazione di processi progettuali coinvolgenti e partecipativi che, tramite una costruzione narrativa significativa, sappiano produrre connessioni, condivisione e consapevolezza[3].

Con pesi e sfumature diversi, una grande quantità di progetti costruiti “dal basso” costituiscono riferimenti strategici per attivare un’ampia riflessione sul significato e sul ruolo delle produzioni culturali nella contemporaneità e sull’importanza del dialogo e dell’inclusività in processi progettuali innovativi, in grado di intervenire nelle politiche del quotidiano generando effetti positivi per le persone e per le comunità.  

Intorno all’empatia sono nate numerose e nuove forme di pensiero poste alla base di molti progetti contemporanei[4]e di buone pratiche sociali, basate sulla cooperazione, all’interno di processi di produzione (e condivisione) culturale. In queste nuove prospettive di patrimonializzazione, anche interamente gestite dalle comunità, il design, quale facilitatore dialogico e relazionale, in grado di saper leggere e interpretare la complessità dei fenomeni, si trova sempre più spesso ad operare all’interno di strategie progettuali che sappiano sviluppare nuove modalità di condivisione e sappiano generare cultura e consapevolezza identitaria.

Nello scenario contemporaneo, il design può definirsi come un attivatore sociale, in grado di orientare la società al benessere collettivo promuovendo comportamenti collaborativi mediante l’attivazione di esperienze condivise[5].

In tali nuove prospettive, i musei sono a un punto di svolta per il ruolo e la rilevanza che si propongono di assumere all’interno della società contemporanea. Essi possono assumere un ruolo proattivo nella costruzione e diffusione di conoscenza, coinvolgendo il pubblico nei processi di produzione di contenuti scientifici e culturali[6] e nella costruzione di un sistema valoriale comune. 

L’ambito multidisciplinare dell’exhibition design, presente nell’interezza dei processi, interviene nella progettazione di un ambiente relazionale fortemente comunicativo, narrativo, proiettato al coinvolgimento delle persone e alla promozione di trasformazioni socio-comportamentali da diffondere in un campo d’azione comune. All’exhibition spetta il ruolo di decidere come rappresentare la storia che le collezioni raccontano, in modo da creare connessioni ed attivare relazioni e cooperazione, senza generare sovrastrutture di significato, ma ponendo al centro gli oggetti e la narrazione (salvifica) dei quali si fanno portatori.

 

Storie di oggetti, di sogni, d’amore perduti. I progetti.

Il Jüdische Museum di Berlino è il progetto capostipite di una pratica espositiva – e di rinnovate ragioni museologiche – che, facendo leva sulla capacità degli oggetti di istituire un rapporto di prossimità emotiva e di immedesimazione del visitatore con la perdita subita dalle vittime del genocidio nazista, in un processo di rispecchiamento e di conoscenza, promuove una preziosa presa di coscienza utile alla previsionalità di azioni future pacifiche e filantropiche[7].

Gli oggetti narrano le storie personali che contribuiscono ad evidenziare aspetti controversi e nascosti rispetto la storia ufficiale. Le implicazioni culturali, storiche, sociali, affettive contenute in essi li rendono strumenti dal forte grado relazionale e testimoniale, «che un giorno diranno chi siamo alle generazioni future»[8].

La vicinanza fisica ed emotiva suscitata da oggetti di uso comune, si colloca alla base di una serie di progetti contemporanei la cui missione culturale di ricordare, e nel contempo denunciare, l’orrore di violente azioni di odio e intolleranza a svantaggio di minoranze etniche, si realizza attraverso la raccolta, la conservazione e l’esposizione di collezioni di oggetti appartenuti alle vittime[9] (Fig. 1), che acquisiscono un significato straordinario[10] di speranza. Nella mostra Stories of survival: object image – memory organizzata dall’Illinois Holocaust Museum & Education Center, più di 60 oggetti personali portati in America dai sopravvissuti all’Olocausto e al genocidio in tutto il mondo (tra cui Armenia, Bosnia, Cambogia, Iraq, Ruanda, Sud Sudan e Siria) sono esposti insieme alle fotografie del documentarista Jim Lommasson (Fig. 2). Le storie scritte a mano dai sopravvissuti e dai loro familiari sono restituite graficamente in composizione con le fotografie degli oggetti in mostra; il racconto di vite strappate ad una placida quotidianità si fa più vivo; il visitatore lo sente vicino, tangibile, potenzialmente proprio.

Il progetto per un Museo, Archivio e Centro sulle migrazioni del Mediterraneo[11] di Lampedusa, nato con l’obiettivo di costituire un museo diffuso che avrebbe custodito gli oggetti recuperati dai soccorritori nei barconi in fondo al mare, nasce come «luogo di accoglienza e di riflessione per raccontare, attraverso l’archivio e i suoi materiali, le storie delle culture migranti e i processi in atto nel Mediterraneo»[12]. Nel contempo l’attività di ricerca antropologica, storica e artistica, riconosce ai reperti un valore di testimonianza storica fondamentale, attraverso cui leggere e interpretare i fenomeni migratori, entro una dimensione umana di carattere universale. Sviluppato da un team di storici dell’arte, antropologi, esperti di migrazioni, l’obiettivo di una fondazione che accogliesse le competenze delle persone migranti e le integrasse in un percorso inclusivo, coniuga l’approccio scientifico ad una dimensione politica e sociale[13]. In mostra, nella loro nudità essenziale, gli oggetti esposti sono i simboli di una materialità reputata indispensabile per poter affrontare il viaggio verso il sogno di una vita migliore. L’apertura del Museo della fiducia e del dialogo per il Mediterraneo[14], nella stessa isola, con l’intento di confrontare e «ricomporre la storia millenaria del Mediterraneo, con le sue straordinarie e variegate espressioni culturali, ma anche i suoi drammi»[15], struttura un percorso espositivo di oggetti che trova il culmine significativo in un racconto multimediale di suoni e immagini in movimento, una stanza del naufragio (Fig. 3), nella quale l’enfasi dell’esperienza della traversata, ne racconta e ne trasferisce la fatica, il rischio di chi è disposto a perdere tutto nel desiderio di trovare il futuro.

La scrittura museale di questi progetti incarna l’idea di un museo inteso quale dispositivo disciplinante, catartico, capace di neutralizzare (o convogliare come energia positiva) il portato emotivo, doloroso della perdita e della separazione, attraverso il potere degli oggetti esposti.

Situato nel palazzo barocco di Kulmer nella Città Alta di Zagabria, il Museo delle relazioni interrotte, fondato dalla produttrice cinematografica Olinka Vištica e dallo scultore Dražen Grubiši, al termine della loro storia d’amore durata quattro anni, si nutre di collezioni di oggetti donati da ex amanti[16], basandosi su un processo di patrimonializzazione interamente affidato alla comunità e alle storie individuali. Lo spazio espositivo del museo[17], in un ambiente terso e interamente bianco, espone con essenzialità la collezione dei reperti (Fig. 4). In mostra con il riferimento della data e del luogo della relazione (unico tratto biografico che li contraddistingue) gli oggetti, esclusivamente accompagnati dalle annotazioni e dai micro-racconti scritti dai donatori medesimi, divengono i protagonisti di “‘percorsi consapevoli di ’accettazione” della perdita e della separazione[18], estensibili ad un’esperienza  universale[19] (Fig. 5).

Ispirato all’omonimo romanzo di Orhan Pamuk, il Museo dell’Innocenza di Instanbul raccoglie gli oggetti ossessivamente collezionati da Kemal, in ricordo dell’amata Füsun.

Nelle piccole teche lignee che scandiscono i capitoli dell’opera letteraria, gli oggetti esposti sono in grado di rivelare emozioni e significati del tutto nuovi, grazie alla relazione che instaurano tra essi (Fig. 6).

«L’operazione concettuale condotta da Pamuk rende gli oggetti racchiusi nelle vetrine (oggetti trovati, quotidiani, non preziosi, scovati nei mercatini istanbulioti) non importanti in quanto originali ma in quanto dispositivo di narrazione»[20]. I micro-paesaggi raccontati dagli oggetti nelle teche/wunderkammer di Pamuk, entrando in risonanza con la sfera più emozionale e intima di ogni persona, affondano nel repertorio privato emotivo personale.

Nel contempo, le implicazioni culturali contenute negli oggetti divengono anche l’espediente narrativo per ricostruire il racconto significativo di un’intera nazione, della sua cultura, dei suoi usi e costumi, delle persone che la abitano. Tre tipi di impianti audio[21] presenti nel museo contribuiscono a restituire il paesaggio sonoro quotidiano della Istanbul all’epoca in cui si svolge la storia del romanzo (il sibilo di un battello a vapore, il fischietto di una guardia notturna, le voci squillanti del venditore di boza e quelle dei passanti), immergendo lo spazio espositivo del museo (e il visitatore) in un’atmosfera immersiva e coinvolgente.

«Costruiti intorno alle persone e alle loro storie, nelle quali anche gli oggetti più quotidiani acquistano forza e pregnanza»[22], i musei della contemporaneità[23] riguardano visioni e orizzonti desiderabili verso i quali muoversi, come scenari all’interno dei quali attivare processi di comprensione dell’altro, promuovere contesti di azione favorevoli all’uomo e alla comunità globale, mettendo in gioco i comportamenti culturali delle persone, la loro stessa antropologia culturale, la loro disponibilità ad aprirsi. Si tratta di obiettivi complessi, ma la sfida per riportare gli istituti museali a svolgere un ruolo di primaria importanza nella società contemporanea rende necessario interpretare e reinterpretare i processi culturali come portatori di innovazione, utilizzando, nel caso dei musei, anche le collezioni e gli oggetti per la creazione di nuovo valore e di orientamento al futuro[24].

Bibliografia

Libri

  • Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia. La corsa verso la coscienza globale nel mondo della crisi, Milano, Mondadori, 2010
  • Isabella Pezzini, Semiotica dei nuovi musei, Roma, Laterza, 2010
  • Orhan Pamuk, L’innocenza degli oggetti. Museo dell’innocenza, Istanbul, Torino, Einaudi, 2012
  • Ezio Manzini, Design, When Everybody Designs. An Introduction to Design for Social Innovation, Massachusetts, London, The MIT Press Cambridge, 2015
  • Olinka Vištica e Dražen Grubišić, Il museo delle relazioni interrotte. Ciò che resta dell’amore, in 203 oggetti, Milano, Mondadori, 2018
  • Michela Rota, Musei per la sostenibilità integrata, Milano, Editrice Bibliografica, 2019

Articoli

  • Mara Rossi, Life Behaviour Design, in «DiiD» 58/14D, 2014
  • Anna Chiara Cimoli, Musei, pregiudizi, empatia. Gettare il corpo nel dialogo in «Roots and Routes. Research on visual cultures», 2016
    https://www.roots-routes.org/musei-pregiudizi-empatia-gettare-corpo-nel-dialogoannachiara-cimoli/
  • Mara Rossi, Migliorare i comportamenti e le relazioni sociali mediante l’innovazione dei processi partecipativi driven design in «I+Diseño», Vol. 11, aprile, 2016
  • Elena Inchingolo, NUOVE PROSPETTIVE MUSEOLOGICHE: LA CULTURA COME DISPOSITIVO DI RELAZIONE ED INCLUSIVITÀ in «Il Giornale delle Fondazioni», Umberto Allemandi & C., 2018. http://www.ilgiornaledellefondazioni.com/content/nuove-prospettive-museologiche-la-cultura-come-dispositivo-di-relazione-ed-inclusivit%C3%A0
  • Maria Giovanna Mancini, Soggettività ed empatia: il Museo delle Relazioni interrotte di Zagabria in Invernizzi S., Maillet A., Villa G. C. F.  (2019), (a cura di), Dove va il museo, Centro Arti Visive Università degli Studi di Bergamo, 2019 Disponibile su http://cav.unibg.it/elephant_castle