La cosa peggiore è sentire di non avere la terra sotto ai piedi. Specialmente quando ce l’hai.

Caterina Di Paolo, Gabriella Pascazio,

Aprile 2020

L’intervista è stata inizialmente pubblicata su Progetto grafico 33 “Lavoro”.

Intervista-confronto sul precariato esistenziale
di Caterina Di Paolo a Gabriella Pascazio

Durante le fasi iniziali della preparazione di questo numero sul lavoro è emerso un tema che secondo tutta la redazione sarebbe stato interessante approfondire: le conseguenze psicologiche del lavoro creativo free-lance.

Inizialmente avevo immaginato un pezzo parodistico, per evitare al brano la pesantezza tipica che il tema dell’interiorità sembra portare con sé: volevo scrivere una sorta di psicopatologia quotidiana del lavoro creativo, piena di tic, coazioni a ripetere e complessi resi in modo umoristico. Mi ero quindi messa in contatto con la psicoterapeuta gestaltista Gabriella Pascazio, con l’idea di fare una chiacchierata semiseria sui temi che toccano noi liberi professionisti quotidianamente. Con una discreta sicurezza di me prevedevo già il brano e il suo tono, mettendomi in una posizione di controllo della cosa senza accorgermene.

La discussione è stata proficua, interessante e profonda; ma ha anche fatto venire alla luce alcuni temi con cui io per prima, da professionista, ho forse fatto troppo poco i conti a livello intimo. A qualche tempo da quella discussione, ora che sto tirando le fila di quell’incontro per ricavarne un brano, mi chiedo se il ricercare a tutti i costi l’ironia – come avevo deciso di fare inizialmente – non sia spesso un modo trito per allontanarci da qualcosa che ci spaventa; come già osservava ad esempio David Foster Wallace (che pure è un riferimento per molti di noi).

In un brano di Christian Raimo, Noi e Max Fisher contro il mondo, uscito su minima & moralia nello scorso gennaio, Raimo ricollega le posizioni di Fisher in Realismo capitalista a un’osservazione di Christian Marazzi: lo studioso ha sottolineato come oggi ci si narri in una sorta di bipolarismo – ansia maniacale e disforia – e che questo sia in qualche modo legato alle spinte della società in cui viviamo. Se tendiamo a narrare le nostre felicità come sempre perfette e altissime e le nostre tristezze come ansie e angosce insuperabili, non ci rendiamo conto che proprio queste esagerazioni ci impediscono di codificare ciò che sentiamo e porci quindi in modo critico rispetto al mondo. Ci sono state tolte le parole per dire ciò che non si può dire – quello che sentiamo, le orride emozioni. Ci si chiederà quale possa essere il legame tra ciò che sentiamo e il mondo del lavoro – nel brano questo e altri punti nodali emergeranno. Non farà ridere, ma potrebbe essere utile.

La capacità di conquista

CDP: «Cara Gabriella, ti ringrazio innanzitutto per aver accettato di farti intervistare. Il tema del lavoro da liberi professionisti è interessante per la categoria dei grafici perché molto spesso – per scelta o loro malgrado – lo sono, con tutti i pregi e i difetti del caso. Ad esempio, da una parte siamo tutti piuttosto informali e amichevoli tra di noi, dall’altra però a tratti si può creare la sensazione che ci sia un territorio che gli altri tuoi colleghi potrebbero occupare; una competizione silenziosa ma incessante.»

G: «Non credo che il sentire un territorio sia una peculiarità del lavoro creativo, quanto piuttosto del lavoro da liberi professionisti. Anzi, è proprio uno dei punti problematici di questa condizione lavorativa, perché è positiva e negativa insieme: la capacità di conquista del territorio è al tempo stesso il cavallo di battaglia e l’elemento di precarietà assoluta dei professionisti.

Molte persone si lamentano di avere un capo stronzo, però per quanto possa essere una persona mediocre avere un capo ti toglie un bel carico di responsabilità dalle spalle: e questo ha a che fare con il territorio. L’esplorazione e la conquista del territorio, in caso di lavoro dipendente, la fa il capo. In caso di libera professione, la fai tu: da una parte non hai nessuno alle spalle che ti possa coprire, dall’altra non hai nessuno che ti imponga delle regole. Quando sei libero professionista ogni azione è tua, e soprattutto è tuo tutto quello che succede dopo le tue scelte.

Ho molti pazienti che perdendo il posto fisso sono finiti nei disturbi più disparati: fobie, depressioni… La perdita della sicurezza può far piombare in una sorta di perdita dei confini.

Tu oggi non hai un territorio prefissato, e quando lo avevi lo percepivi come una gabbia. C’è chi, alla perdita di un superiore che gli dica fin dove deve arrivare, perde l’orientamento. La realtà è la stessa, è la reazione a essa a renderla negativa o positiva.

Perché si mettono i bambini piccoli nel box? Perché lì imparano a stare in piedi; sanno che al di là della rete non possono andare. Il pavimento è fatto di gomma, se cadono non si fanno niente. Se fanno passi fuori dalla rete c’è la mamma, che li prende, sta loro vicino, li fa gattonare, non li fa allontanare… Più o meno quello che succede ai bambini è quello che succede nella vita.»

La scelta

«La capacità di fare delle scelte è importantissima ed è legata alla mentalità imprenditoriale. “Vado a sinistra o vado a destra?” può essere una domanda tragica, o una scelta da fare. La mentalità del libero professionista è: fai la scelta; magari ti sbagli, e se ciò accade troverai un riparo. D’altronde si può capire se una scelta fatta era giusta solo dopo averla fatta e col passare del tempo.

Se mi guadagno da vivere in modo indipendente ma ho delle insicurezze, vedrò la presenza di altri liberi professionisti come una minaccia al mio territorio. È vero che c’è una competizione, ma sono io a scegliere se questa mi possa spaventare o no.

Non credere però che il lavoro da liberi professionisti sia automaticamente più a rischio psicologicamente del lavoro fisso: ci sono persone che non hanno grandi capacità di resilienza e crollano anche nel lavoro dipendente. In particolare tra i miei pazienti mi pare che i più stressati siano gli impiegati di banca: nonostante abbiano uno stipendio e un posto fisso e magari lavorino da vent’anni, negli ultimi anni la gran parte delle banche sta attuando un mobbing incessante sui suoi lavoratori, che vengono messi in una condizione di minaccia continua. Per esempio viene detto loro continuamente che ci sono degli esuberi, e li si tartassa con richieste di efficienza impossibili usando la minaccia velata del licenziamento. In questo modo si crea la situazione peggiore: vivere in modo precario quella che sembrava una situazione stabile.»

La confusione tra privato e lavorativo

«Va detto però che molte persone si trovano obbligate a fare i liberi professionisti perché in realtà manca ormai un sistema che garantisca un contratto a gran parte dei lavoratori. Un redattore di “Progetto Grafico”, Silvio Lorusso, porta avanti una ricerca proprio su questi temi e ha coniato l’azzeccata parola “entreprecariat”, che fotografa bene questa situazione di imprenditoria precaria.»

«È un termine molto giusto e interessante, e a mio parere non è legato “soltanto” a una mancanza politica ma a un sistema che esaspera la solitudine. L’individualizzazione costruttiva è quella che si crea tra genitore e figlio, quando quest’ultimo prende la sua strada e si fa la sua vita. Noi viviamo in un’individualizzazione perpetua, con l’ossessione di costruirci una strada, che naturalmente se è solo di realizzazione professionale è monca. Il lavoro è tutto quello che mi rimane: ad esempio, recito il ruolo del medico anche quando sono a casa con la mia famiglia. Nella vita privata c’è sempre meno rete; le persone riversano nel lavoro tutto quello che prima vi si riversava in modo molto più ridotto. Molte persone soffrono di disturbi dissociativi: nella vita privata sono una persona, in quella pubblica un’altra; e guarda caso molto spesso sono persone di successo sul lavoro e hanno problemi nella vita privata, perché impiegano tutto quello che hanno per sfavillare lavorativamente. Come dicevo prima, anche nei luoghi di lavoro considerati sicuri i dipendenti sono continuamente spinti a performare, a vendere, a spiccare: gli addetti della banca e della posta che sono spinti a pubblicizzare e vendere prodotti oltre a fare il mestiere per cui hanno delle competenze, ad esempio.

La precarietà non sta tanto nelle aspettative di guadagno o nella lunghezza del periodo lavorativo, quanto nel fatto che alcune paure della persona vengono traslate senza nemmeno accorgersene nel campo lavorativo, perché i due piani per molte persone sono completamente sbilanciati. Altrimenti, come potremmo spiegarci che nello stesso ambito lavorativo esistano persone che vivono serenamente e altre che non ce la fanno, a parità di competenze?

Molti dei pazienti che mi arrivano lo fanno dopo essere passati da un Centro di igiene mentale, quando la situazione ormai è gravissima. Molti di loro sono vittime del precariato, ma va fatto un distinguo tra il precariato lavorativo e quello personale. Ci sono persone che non si “buttano” perché hanno paura: quelle paure non hanno a che fare con il tuo lavoro, ma con chi sei tu e quale sia stato il momento nella tua vita in cui qualcuno ti ha fatto interiorizzare che più di là non puoi andare. Il discorso del box che facevo prima: se una persona ha incapacità di muoversi ha alle spalle un genitore castrante, non solo una società attorno a lui che non lo aiuta.»

«Qualche tempo fa è successo un fatto che mi ha sconvolta. Un giovane grafico friulano si è suicidato, lasciando una lettera in cui imputava i motivi del suo gesto alle difficoltà lavorative. La sua famiglia ha deciso di rendere pubblica la lettera.

Io sono rimasta agghiacciata da come questa lettera, scritta in un momento di evidente delirio, sia stata pubblicata da moltissimi giornali senza nessuna cornice interpretativa né cautela. E lo stesso hanno fatto molte persone che hanno condiviso quel brano commentando, semplicemente, che il lavoro oggi è impossibile, che i giovani oggi non hanno possibilità, eccetera… Quindi senza avere nessun distacco critico dall’ultima lettera di un suicida, dando per vere le cose che ha scritto nel momento di massima disperazione.»

«Però vedi come nel definirlo “giovane grafico friulano” lo metti, senza accorgertene, anche tu nella cornice interpretativa che lui si è costruito per se stesso, quella che i giornali e il pubblico di questo suicidio hanno poi accolto. Non era un giovane grafico, non solo: era un giovane; una persona.

Da psicologa do per scontato che un suicidio non sia mai legato solo a un motivo esterno alla persona. Mi lascia però abbastanza colpita come per molte persone questa cosa non sia chiara, e non serve arrivare a un evento così estremo: sempre più spesso parlo con pazienti che fanno difficoltà a capire che hanno una responsabilità nelle cose che fanno, che in ogni evento che li riguarda ci sono anche loro e la loro reazione interiore. Se questo punto salta, se non ho chiaro che non solo le cose ma anche e soprattutto la mia reazione alle cose sono parte integrante della mia vita, allora il motivo di un suicidio può diventare il lavoro.

Torniamo all’individualizzazione. I genitori non ci sono, i fratelli non ci sono perché si tende a fare la famiglia a tre. Ci sono case con tre persone e tre televisori in ambienti diversi.

Quando manca il dialogo manca il confronto, e io che magari sto male per vari motivi tra cui il lavoro e le mie cose personali, non parlo e mi tengo tutto dentro. Credo di decidere, ma quella dettata dalla disperazione non è mai una scelta. Non comunicando, inizio a costruire dentro di me un delirio.

Il delirio è un’immagine della realtà distorta, che una persona esterna al delirio non può condividere perché la vedrebbe come lontana dalla base di realtà. La persona immersa nel delirio, invece, sostituisce la realtà con il suo delirio. La ricerca e l’esperienza clinica, però, ci insegnano che per arrivare a vivere in una realtà delirante il percorso non è breve: la persona delirante, purtroppo, ha alle spalle grandi mancanze e non ha capacità di resilienza.

L’entrata nel mondo del lavoro ha sempre un impatto forte. Per una persona con grandi fragilità ne ha di più, è come entrare nella tana del lupo: le alternative sono tre. O diventi lupo, ovvero ti strutturi a suon di sofferenze, oppure ti fai mangiare. Oppure, se riesci, scappi: rafforzi la tua realtà delirante.

Un mio ex paziente mi diceva: “Ho trentacinque anni, ho tre lauree e non riesco a trovare lavoro”. Tralasciando tutte le difficoltà oggettive di questo momento storico, nella psicoterapia gestaltista quando dici “Non riesco” significa “Non voglio”.

“La mia collega mi ha fatto esaurire!”, “Il capo mi ha fatto deprimere!”… Molte persone mi riportano dei casi in cui viene evidenziato sempre l’input esterno, la loro reazione invece non è mai importante. In questi casi la responsabilità personale non appare mai. Molto spesso in questi casi i pazienti mi frequentano finché non passa la fase negativa, come se un disagio interiore fosse un fastidio passeggero; poi alla delusione seguente tornano. La colpa è sempre fuori di loro, mai dentro. Finché non si riconosce una responsabilità interiore, non si può risolvere nulla.

Secondo te le moltissime persone che hanno condiviso la lettera del suicida, magari corredandola con un “poverino” e approfittandosene per buttar giù due lamentele sul lavoro, provavano compassione per lui?»

Angst

«Quando si parla del lavoro, lo si ricollega spesso all’angoscia. Ieri ho aperto la partita Iva, e la cosa mi ha messo angoscia. Per esempio ho pensato: “adesso esisto agli occhi del fisco, non posso sgarrare”.»

«Attenzione alle parole: perché parli di angoscia? Molte volte il sintomo viene amplificato da una terminologia inadeguata.

A volte vengono ragazzi da me dicendo “ho stra-ansia”, “ho stra-tristezza”, “ho stra-angoscia”. In realtà, scavando un po’, si scopre che provavano paura e agitazione, molto più semplici da gestire di ansia e angoscia. E spesso quando dico loro: “Questa non si chiama ansia ma paura”, loro si risollevano perché hanno la consapevolezza di quello che succede.

Questo punto è molto importante.

Se prendessi questo bicchiere e dicessi “Ecco una pentola”, ci mettessi dentro l’acqua e la pasta e lo piazzassi sul fornello, il bicchiere si romperebbe. Sembra un esempio stupido, ma la costruzione del delirio funziona così: una persona chiama nel modo sbagliato qualcosa, e quando questo qualcosa si rompe esplode tutto.

Che cos’è l’angoscia? Se ti fosse venuta l’angoscia dalla commercialista ieri, saresti rimasta immobilizzata, saresti impallidita, avrebbero dovuto cercare di tranquillizzarti, non saresti riuscita a respirare. Non credo ti sia accaduto questo. È importante alfabetizzare correttamente le nostre reazioni alle cose, perché se non ci riusciamo verremo portati in una direzione diversa rispetto ai dati di fatto.

La gestalt è la terapia della consapevolezza: se questo è un bicchiere, è un bicchiere. Non è una pentola. Guardalo per quello che è, e agisci di conseguenza.

Quando io ho aperto la partita Iva, dopo aver lavorato come dipendente, mi sono arrivate un mucchio di osservazioni: “Adesso sarà più difficile. Sarai il capo e l’operaio. Dovrai saperti organizzare…” Se a una persona non capace di far fronte alle responsabilità vengono fatti questi commenti, quella persona si spaventerà e verrà meno, anche se magari è una persona con un potenziale nel suo lavoro: se non sa stare salda sui suoi piedi e prendersi le sue responsabilità rimarrà bloccata. Questo è il vero precariato.»

«La sensazione di non avere la terra sotto ai piedi.»

«La cosa peggiore è la sensazione di non avere la terra sotto ai piedi quando la terra sotto ai piedi ce l’hai. Prendi delle scelte perché le puoi prendere. E se non ce la fai? Amen. Ci hai provato. Ma adesso che hai preso questa decisione significa che hai già la terra sotto ai piedi. Il contadino semina per il raccolto, poi se va male cambierà coltura.

Quando ho chiuso il regime dei minimi colleghi e commercialisti sono impazziti: “Adesso non entrare nel regime normale! Perché lì paghi le tasse.” Ovvero: uscendo dal regime dei minimi si paga l’Irpef. Però gli anni del regime dei minimi devono servire a metter su un’attività e consolidarla: cosa che viene persa di vista. Conosco persone che stanno negli anni del regime dei minimi, poi quando devono uscirne chiudono l’attività. Ma se ho aperto e l’attività va bene, perché devo chiudere? Conosco anche persone che hanno molto lavoro ma che stanno attente a non superare il tetto del regime forfettario negando lavori che potrebbero fare, e poi si lamentano di non farcela. Ma chi ti ha messo nelle condizioni di non farcela? Lo Stato o tu? Stiamo parlando di un paradosso che diventa l’idea collettiva.

Abbiamo parlato di creatività, progettualità, capacità di prendersi un terreno, di realtà e delirio. Quindi adesso possiamo dire con serenità che la creatività è qualcosa di diverso da pensare di andare sulla luna con la bicicletta e poi lamentarti che non ce l’hai fatta. La creatività e la progettualità si devono fondare su un lavoro interiore per funzionare, su una conoscenza di sé. Tutte le scelte partono da noi e dalle nostre reazioni. Una cosa comune per me può non esserlo per qualcun altro che non ha i mezzi interiori per affrontarla.»

Note:

La cosa peggiore è sentire di non avere la terra sotto ai piedi. Specialmente quando ce l’hai.

Caterina Di Paolo, Gabriella Pascazio,

Aprile 2020

L'intervista è stata inizialmente pubblicata su Progetto grafico 33 "Lavoro".

Intervista-confronto sul precariato esistenziale
di Caterina Di Paolo a Gabriella Pascazio

Durante le fasi iniziali della preparazione di questo numero sul lavoro è emerso un tema che secondo tutta la redazione sarebbe stato interessante approfondire: le conseguenze psicologiche del lavoro creativo free-lance.

Inizialmente avevo immaginato un pezzo parodistico, per evitare al brano la pesantezza tipica che il tema dell’interiorità sembra portare con sé: volevo scrivere una sorta di psicopatologia quotidiana del lavoro creativo, piena di tic, coazioni a ripetere e complessi resi in modo umoristico. Mi ero quindi messa in contatto con la psicoterapeuta gestaltista Gabriella Pascazio, con l’idea di fare una chiacchierata semiseria sui temi che toccano noi liberi professionisti quotidianamente. Con una discreta sicurezza di me prevedevo già il brano e il suo tono, mettendomi in una posizione di controllo della cosa senza accorgermene.

La discussione è stata proficua, interessante e profonda; ma ha anche fatto venire alla luce alcuni temi con cui io per prima, da professionista, ho forse fatto troppo poco i conti a livello intimo. A qualche tempo da quella discussione, ora che sto tirando le fila di quell’incontro per ricavarne un brano, mi chiedo se il ricercare a tutti i costi l’ironia – come avevo deciso di fare inizialmente – non sia spesso un modo trito per allontanarci da qualcosa che ci spaventa; come già osservava ad esempio David Foster Wallace (che pure è un riferimento per molti di noi).

In un brano di Christian Raimo, Noi e Max Fisher contro il mondo, uscito su minima & moralia nello scorso gennaio, Raimo ricollega le posizioni di Fisher in Realismo capitalista a un’osservazione di Christian Marazzi: lo studioso ha sottolineato come oggi ci si narri in una sorta di bipolarismo – ansia maniacale e disforia – e che questo sia in qualche modo legato alle spinte della società in cui viviamo. Se tendiamo a narrare le nostre felicità come sempre perfette e altissime e le nostre tristezze come ansie e angosce insuperabili, non ci rendiamo conto che proprio queste esagerazioni ci impediscono di codificare ciò che sentiamo e porci quindi in modo critico rispetto al mondo. Ci sono state tolte le parole per dire ciò che non si può dire – quello che sentiamo, le orride emozioni. Ci si chiederà quale possa essere il legame tra ciò che sentiamo e il mondo del lavoro – nel brano questo e altri punti nodali emergeranno. Non farà ridere, ma potrebbe essere utile.

La capacità di conquista

CDP: «Cara Gabriella, ti ringrazio innanzitutto per aver accettato di farti intervistare. Il tema del lavoro da liberi professionisti è interessante per la categoria dei grafici perché molto spesso – per scelta o loro malgrado – lo sono, con tutti i pregi e i difetti del caso. Ad esempio, da una parte siamo tutti piuttosto informali e amichevoli tra di noi, dall’altra però a tratti si può creare la sensazione che ci sia un territorio che gli altri tuoi colleghi potrebbero occupare; una competizione silenziosa ma incessante.»

G: «Non credo che il sentire un territorio sia una peculiarità del lavoro creativo, quanto piuttosto del lavoro da liberi professionisti. Anzi, è proprio uno dei punti problematici di questa condizione lavorativa, perché è positiva e negativa insieme: la capacità di conquista del territorio è al tempo stesso il cavallo di battaglia e l’elemento di precarietà assoluta dei professionisti.

Molte persone si lamentano di avere un capo stronzo, però per quanto possa essere una persona mediocre avere un capo ti toglie un bel carico di responsabilità dalle spalle: e questo ha a che fare con il territorio. L’esplorazione e la conquista del territorio, in caso di lavoro dipendente, la fa il capo. In caso di libera professione, la fai tu: da una parte non hai nessuno alle spalle che ti possa coprire, dall’altra non hai nessuno che ti imponga delle regole. Quando sei libero professionista ogni azione è tua, e soprattutto è tuo tutto quello che succede dopo le tue scelte.

Ho molti pazienti che perdendo il posto fisso sono finiti nei disturbi più disparati: fobie, depressioni… La perdita della sicurezza può far piombare in una sorta di perdita dei confini.

Tu oggi non hai un territorio prefissato, e quando lo avevi lo percepivi come una gabbia. C’è chi, alla perdita di un superiore che gli dica fin dove deve arrivare, perde l’orientamento. La realtà è la stessa, è la reazione a essa a renderla negativa o positiva.

Perché si mettono i bambini piccoli nel box? Perché lì imparano a stare in piedi; sanno che al di là della rete non possono andare. Il pavimento è fatto di gomma, se cadono non si fanno niente. Se fanno passi fuori dalla rete c’è la mamma, che li prende, sta loro vicino, li fa gattonare, non li fa allontanare… Più o meno quello che succede ai bambini è quello che succede nella vita.»

La scelta

«La capacità di fare delle scelte è importantissima ed è legata alla mentalità imprenditoriale. “Vado a sinistra o vado a destra?” può essere una domanda tragica, o una scelta da fare. La mentalità del libero professionista è: fai la scelta; magari ti sbagli, e se ciò accade troverai un riparo. D’altronde si può capire se una scelta fatta era giusta solo dopo averla fatta e col passare del tempo.

Se mi guadagno da vivere in modo indipendente ma ho delle insicurezze, vedrò la presenza di altri liberi professionisti come una minaccia al mio territorio. È vero che c’è una competizione, ma sono io a scegliere se questa mi possa spaventare o no.

Non credere però che il lavoro da liberi professionisti sia automaticamente più a rischio psicologicamente del lavoro fisso: ci sono persone che non hanno grandi capacità di resilienza e crollano anche nel lavoro dipendente. In particolare tra i miei pazienti mi pare che i più stressati siano gli impiegati di banca: nonostante abbiano uno stipendio e un posto fisso e magari lavorino da vent’anni, negli ultimi anni la gran parte delle banche sta attuando un mobbing incessante sui suoi lavoratori, che vengono messi in una condizione di minaccia continua. Per esempio viene detto loro continuamente che ci sono degli esuberi, e li si tartassa con richieste di efficienza impossibili usando la minaccia velata del licenziamento. In questo modo si crea la situazione peggiore: vivere in modo precario quella che sembrava una situazione stabile.»

La confusione tra privato e lavorativo

«Va detto però che molte persone si trovano obbligate a fare i liberi professionisti perché in realtà manca ormai un sistema che garantisca un contratto a gran parte dei lavoratori. Un redattore di “Progetto Grafico”, Silvio Lorusso, porta avanti una ricerca proprio su questi temi e ha coniato l’azzeccata parola “entreprecariat”, che fotografa bene questa situazione di imprenditoria precaria.»

«È un termine molto giusto e interessante, e a mio parere non è legato “soltanto” a una mancanza politica ma a un sistema che esaspera la solitudine. L’individualizzazione costruttiva è quella che si crea tra genitore e figlio, quando quest’ultimo prende la sua strada e si fa la sua vita. Noi viviamo in un’individualizzazione perpetua, con l’ossessione di costruirci una strada, che naturalmente se è solo di realizzazione professionale è monca. Il lavoro è tutto quello che mi rimane: ad esempio, recito il ruolo del medico anche quando sono a casa con la mia famiglia. Nella vita privata c’è sempre meno rete; le persone riversano nel lavoro tutto quello che prima vi si riversava in modo molto più ridotto. Molte persone soffrono di disturbi dissociativi: nella vita privata sono una persona, in quella pubblica un’altra; e guarda caso molto spesso sono persone di successo sul lavoro e hanno problemi nella vita privata, perché impiegano tutto quello che hanno per sfavillare lavorativamente. Come dicevo prima, anche nei luoghi di lavoro considerati sicuri i dipendenti sono continuamente spinti a performare, a vendere, a spiccare: gli addetti della banca e della posta che sono spinti a pubblicizzare e vendere prodotti oltre a fare il mestiere per cui hanno delle competenze, ad esempio.

La precarietà non sta tanto nelle aspettative di guadagno o nella lunghezza del periodo lavorativo, quanto nel fatto che alcune paure della persona vengono traslate senza nemmeno accorgersene nel campo lavorativo, perché i due piani per molte persone sono completamente sbilanciati. Altrimenti, come potremmo spiegarci che nello stesso ambito lavorativo esistano persone che vivono serenamente e altre che non ce la fanno, a parità di competenze?

Molti dei pazienti che mi arrivano lo fanno dopo essere passati da un Centro di igiene mentale, quando la situazione ormai è gravissima. Molti di loro sono vittime del precariato, ma va fatto un distinguo tra il precariato lavorativo e quello personale. Ci sono persone che non si “buttano” perché hanno paura: quelle paure non hanno a che fare con il tuo lavoro, ma con chi sei tu e quale sia stato il momento nella tua vita in cui qualcuno ti ha fatto interiorizzare che più di là non puoi andare. Il discorso del box che facevo prima: se una persona ha incapacità di muoversi ha alle spalle un genitore castrante, non solo una società attorno a lui che non lo aiuta.»

«Qualche tempo fa è successo un fatto che mi ha sconvolta. Un giovane grafico friulano si è suicidato, lasciando una lettera in cui imputava i motivi del suo gesto alle difficoltà lavorative. La sua famiglia ha deciso di rendere pubblica la lettera.

Io sono rimasta agghiacciata da come questa lettera, scritta in un momento di evidente delirio, sia stata pubblicata da moltissimi giornali senza nessuna cornice interpretativa né cautela. E lo stesso hanno fatto molte persone che hanno condiviso quel brano commentando, semplicemente, che il lavoro oggi è impossibile, che i giovani oggi non hanno possibilità, eccetera… Quindi senza avere nessun distacco critico dall’ultima lettera di un suicida, dando per vere le cose che ha scritto nel momento di massima disperazione.»

«Però vedi come nel definirlo “giovane grafico friulano” lo metti, senza accorgertene, anche tu nella cornice interpretativa che lui si è costruito per se stesso, quella che i giornali e il pubblico di questo suicidio hanno poi accolto. Non era un giovane grafico, non solo: era un giovane; una persona.

Da psicologa do per scontato che un suicidio non sia mai legato solo a un motivo esterno alla persona. Mi lascia però abbastanza colpita come per molte persone questa cosa non sia chiara, e non serve arrivare a un evento così estremo: sempre più spesso parlo con pazienti che fanno difficoltà a capire che hanno una responsabilità nelle cose che fanno, che in ogni evento che li riguarda ci sono anche loro e la loro reazione interiore. Se questo punto salta, se non ho chiaro che non solo le cose ma anche e soprattutto la mia reazione alle cose sono parte integrante della mia vita, allora il motivo di un suicidio può diventare il lavoro.

Torniamo all’individualizzazione. I genitori non ci sono, i fratelli non ci sono perché si tende a fare la famiglia a tre. Ci sono case con tre persone e tre televisori in ambienti diversi.

Quando manca il dialogo manca il confronto, e io che magari sto male per vari motivi tra cui il lavoro e le mie cose personali, non parlo e mi tengo tutto dentro. Credo di decidere, ma quella dettata dalla disperazione non è mai una scelta. Non comunicando, inizio a costruire dentro di me un delirio.

Il delirio è un’immagine della realtà distorta, che una persona esterna al delirio non può condividere perché la vedrebbe come lontana dalla base di realtà. La persona immersa nel delirio, invece, sostituisce la realtà con il suo delirio. La ricerca e l’esperienza clinica, però, ci insegnano che per arrivare a vivere in una realtà delirante il percorso non è breve: la persona delirante, purtroppo, ha alle spalle grandi mancanze e non ha capacità di resilienza.

L’entrata nel mondo del lavoro ha sempre un impatto forte. Per una persona con grandi fragilità ne ha di più, è come entrare nella tana del lupo: le alternative sono tre. O diventi lupo, ovvero ti strutturi a suon di sofferenze, oppure ti fai mangiare. Oppure, se riesci, scappi: rafforzi la tua realtà delirante.

Un mio ex paziente mi diceva: “Ho trentacinque anni, ho tre lauree e non riesco a trovare lavoro”. Tralasciando tutte le difficoltà oggettive di questo momento storico, nella psicoterapia gestaltista quando dici “Non riesco” significa “Non voglio”.

“La mia collega mi ha fatto esaurire!”, “Il capo mi ha fatto deprimere!”… Molte persone mi riportano dei casi in cui viene evidenziato sempre l’input esterno, la loro reazione invece non è mai importante. In questi casi la responsabilità personale non appare mai. Molto spesso in questi casi i pazienti mi frequentano finché non passa la fase negativa, come se un disagio interiore fosse un fastidio passeggero; poi alla delusione seguente tornano. La colpa è sempre fuori di loro, mai dentro. Finché non si riconosce una responsabilità interiore, non si può risolvere nulla.

Secondo te le moltissime persone che hanno condiviso la lettera del suicida, magari corredandola con un “poverino” e approfittandosene per buttar giù due lamentele sul lavoro, provavano compassione per lui?»

Angst

«Quando si parla del lavoro, lo si ricollega spesso all’angoscia. Ieri ho aperto la partita Iva, e la cosa mi ha messo angoscia. Per esempio ho pensato: “adesso esisto agli occhi del fisco, non posso sgarrare”.»

«Attenzione alle parole: perché parli di angoscia? Molte volte il sintomo viene amplificato da una terminologia inadeguata.

A volte vengono ragazzi da me dicendo “ho stra-ansia”, “ho stra-tristezza”, “ho stra-angoscia”. In realtà, scavando un po’, si scopre che provavano paura e agitazione, molto più semplici da gestire di ansia e angoscia. E spesso quando dico loro: “Questa non si chiama ansia ma paura”, loro si risollevano perché hanno la consapevolezza di quello che succede.

Questo punto è molto importante.

Se prendessi questo bicchiere e dicessi “Ecco una pentola”, ci mettessi dentro l’acqua e la pasta e lo piazzassi sul fornello, il bicchiere si romperebbe. Sembra un esempio stupido, ma la costruzione del delirio funziona così: una persona chiama nel modo sbagliato qualcosa, e quando questo qualcosa si rompe esplode tutto.

Che cos’è l’angoscia? Se ti fosse venuta l’angoscia dalla commercialista ieri, saresti rimasta immobilizzata, saresti impallidita, avrebbero dovuto cercare di tranquillizzarti, non saresti riuscita a respirare. Non credo ti sia accaduto questo. È importante alfabetizzare correttamente le nostre reazioni alle cose, perché se non ci riusciamo verremo portati in una direzione diversa rispetto ai dati di fatto.

La gestalt è la terapia della consapevolezza: se questo è un bicchiere, è un bicchiere. Non è una pentola. Guardalo per quello che è, e agisci di conseguenza.

Quando io ho aperto la partita Iva, dopo aver lavorato come dipendente, mi sono arrivate un mucchio di osservazioni: “Adesso sarà più difficile. Sarai il capo e l’operaio. Dovrai saperti organizzare…” Se a una persona non capace di far fronte alle responsabilità vengono fatti questi commenti, quella persona si spaventerà e verrà meno, anche se magari è una persona con un potenziale nel suo lavoro: se non sa stare salda sui suoi piedi e prendersi le sue responsabilità rimarrà bloccata. Questo è il vero precariato.»

«La sensazione di non avere la terra sotto ai piedi.»

«La cosa peggiore è la sensazione di non avere la terra sotto ai piedi quando la terra sotto ai piedi ce l’hai. Prendi delle scelte perché le puoi prendere. E se non ce la fai? Amen. Ci hai provato. Ma adesso che hai preso questa decisione significa che hai già la terra sotto ai piedi. Il contadino semina per il raccolto, poi se va male cambierà coltura.

Quando ho chiuso il regime dei minimi colleghi e commercialisti sono impazziti: “Adesso non entrare nel regime normale! Perché lì paghi le tasse.” Ovvero: uscendo dal regime dei minimi si paga l’Irpef. Però gli anni del regime dei minimi devono servire a metter su un’attività e consolidarla: cosa che viene persa di vista. Conosco persone che stanno negli anni del regime dei minimi, poi quando devono uscirne chiudono l’attività. Ma se ho aperto e l’attività va bene, perché devo chiudere? Conosco anche persone che hanno molto lavoro ma che stanno attente a non superare il tetto del regime forfettario negando lavori che potrebbero fare, e poi si lamentano di non farcela. Ma chi ti ha messo nelle condizioni di non farcela? Lo Stato o tu? Stiamo parlando di un paradosso che diventa l’idea collettiva.

Abbiamo parlato di creatività, progettualità, capacità di prendersi un terreno, di realtà e delirio. Quindi adesso possiamo dire con serenità che la creatività è qualcosa di diverso da pensare di andare sulla luna con la bicicletta e poi lamentarti che non ce l’hai fatta. La creatività e la progettualità si devono fondare su un lavoro interiore per funzionare, su una conoscenza di sé. Tutte le scelte partono da noi e dalle nostre reazioni. Una cosa comune per me può non esserlo per qualcun altro che non ha i mezzi interiori per affrontarla.»

Note: